
Di presagi e di inviti
L’infermeria era silenziosa per la prima volta dopo quasi due giorni. Niamh si sedette tra i due letti chiudendo gli occhi e cercando di concentrarsi e di schiacciare quella sensazione di pericolo che non l’abbandonava da quando aveva messo piede in quella scuola.
All’inizio dell’anno aveva mentito a Severus, dicendo che era stata mandata per istruire Pansy. O meglio, non aveva detto tutta la verità, ma d’altronde c’era qualcuno che lo faceva davvero in quella scuola?
Non Piton stesso che aveva fatto il doppio gioco per anni, ingannando tutti, compresa la famiglia di sua madre.
Non la piccola, dolce ed entusiasta Auror mutaforma che continuava a celare il vero motivo per cui era lì, troppo altruista per rinunciare ma ancora così ingenua da non capire che nessuno avrebbe protetto lei.
Non Pansy che continuava a mentire: era certa che anche lei sentisse quella risonanza sorda, quel tarlo che le scavava continuamente nel cervello. Non le aveva detto dei suoi incubi, il suo essere che sentiva quanto il bambino sopravvissuto fosse ormai uno dei legami indissolubile con quello che era stato conosciuto come l’Oscuro Signore.
E di sicuro non la diceva Silente. Sua madre aveva ragione a non fidarsi. Silente era indubbiamente uno dei maghi più potenti mai conosciuti, ma forse era proprio quella la sua più grande debolezza: guardando il grande quadro della storia tendeva a calpestare le piccole e comuni vite che incrociava.
Il silenzio della notte fu interrotto dal suono di una civetta. Lo conosceva quel suono, antico come il mondo, incomparabile a qualsiasi animale realmente esistente: era il richiamo della Dea che le ricordava che aveva un compito. Sibilla Trelawney aveva avuto poche visioni in vita sua, o almeno ne aveva avute poche di reali. La più recente era stata quella che aveva predetto il ritorno del Signore Oscuro. Poi c’era quella nascosta nel dipartimento dei misteri. Ma la prima era quella di cui neanche resa conto, raccolta un giorno per caso da sua madre e suo zio.
E tutte e tre avevano una cosa, o meglio qualcuno, in comune.
Harry Potter. Il bambino sopravvissuto. Colui che doveva morire per poter salvare il mondo. Quello in cui viveva adesso e quello che aveva lasciato.
Quando Susan Boyle accanto a lei si dimenò nel letto, incapace di uscire dall’incubo in cui era caduta, Niamh si chinò per cercare di catturare quei sogni, per scrutare nella sua mente alla ricerca di un indizio, ma nulla, era impenetrabile. Sbuffando scacciò l’insetto dalle carnose ali violacee che continuava ad agitarsi intorno a loro.
Mentre in lontananza il richiamo si ripeteva lungo e penetrante, la ragazza nel letto accanto iniziò a lamentarsi con sempre maggior foga, dimenandosi tra le lenzuola che sembravano intrappolarla come un bozzolo. Poi con urlo si alzò di scatto a sedere sul letto, mentre il respiro si faceva sempre più affannoso.
Niamh si avvicinò con circospezione, ma i piccoli occhi della ragazzina saettavano da un lato all’altro della stanza, cercando disperatamente di riallacciare i pensieri. Doveva fare presto, da un momento all’altro l’infermeria si sarebbe riempita di professori, pensò tirando fuori dal mantello una provetta di cristallo bianco e facendovi scivolare dentro una delle lacrime che ancora orlavano le ciglia della studentessa, un attimo prima che l’infermeria e la professoressa Sproute irrompessero in infermeria, seguite a breve da Silente e la McGranitt.
Niamh sorrise, sostenendo lo sguardo indagatore della Capocasa di Tassorosso, facendole spazio accanto al letto. Poi approfittando della confusione scivolò leggera nel corridoio, incrociando a mala pena Nymphadora Tonks che camminava nervosa nel corridoio, incapace di calmare quella crescente inquietudine che le stringeva lo stomaco da giorni.
Era un gran peccato che il bambino sarebbe stato un maschio. E a quanto aveva visto nei suoi sogni, Tassorosso. Sua madre l’avrebbe trovato davvero esilarante.
***
Ritornare alla normalità era stato quasi altrettanto difficile che essere rinchiusi improvvisamente nelle loro case. La stessa sala comune sembrava ora quasi un luogo estraneo: troppo rumore, troppi odori, troppe voci che rimbombavano tutte insieme nello stesso momento, persino la visione di centinaia di studenti vestiti tutti allo stesso modo sembrava darle il capogiro. Provò a ricordare com’era stare in un altro tavolo, si trattava solo di prospettiva: un trucco della mente in fondo, quello che ormai erano abituati a raccontarsi, giorno dopo giorno.
E al momento tutti i tavoli parlavano solo e soltanto di una cosa: le due studentesse aggredite, di cui nessuno sembrava avere notizie certe. Ora erano al loro posto, sedute a Tassorosso come se fosse un giorno normale, ma lo sguardo era ancora perso da qualche parte, come se non fossero pienamente presenti.
Per cinque lunghi anni il tavolo di Grifondoro l’aveva attesa ogni mattina: c’erano stati giorni buoni, fatti di risate e confidenze; giorni in cui aveva avuto a malapena il tempo di bere un caffè, troppo presa dagli impegni della giornata, la mente al test di pozioni, al compito per la McGranitt, all’ennesimo tentativo di evitare che la speranza dei maghi morisse di una morte violenta per mano di Voldemort o di uno dei suoi seguaci, padre di Draco incluso. Ma c’erano stati anche dei giorni brutti, quando nella sua stessa casa si era sentita fuori posto, sbagliata, eccessiva: era successo quando aveva sentito Ron parlare male di lei il primo anno, ripetendo quello che nella sua testa lei stessa si ripeteva ogni giorno.
Chi la sopporta quella.
Sin da bambina era sempre stata speciale, ma nel mondo babbano era stata presa per folle: addirittura al secondo o terzo anno le avevano consigliato di vedere uno psicologo infantile, perché aveva la tendenza ad isolarsi, a non legare con gli altri bambini. Se la ricordava quella dottoressa gentile che l’aveva portata in una stanza ricolma di giochi per ogni età e grandi fogli bianchi e pastelli di tutti i colori. Lei però si era diretta immediatamente verso la libreria di legno chiaro ricolma di libri, fermandosi appena a sfiorarli con le dita, uno per uno, mormorando i titoli a mezza voce, come se stesse chiamando dei vecchi amici. Poi però aveva sbuffato, mostrando tutto il suo disappunto per non averne trovato neanche uno che non avesse già letto, in una dei suoi lunghi pomeriggi solitari quando si rintanava in un angolo del giardino, con il sole che faceva capolino timido dietro le nuvole.
E la dottoressa non aveva detto niente, limitandosi a fissarla mentre si accoccolava in poltrona con un’edizione illustrata del Giardino Segreto, sfogliando le pagine con estrema delicatezza e sgranando gli occhi di fronte alla sorpresa: il libro nascondeva tra le sue pagine degli inserti che non si era immaginata, coperti appena di carta velina, in modo che non si rovinassero. Esitò un attimo prima di tirare la linguetta di una pagina, osservando con attenzione la piccola porta di metallo verde che scivolava di lato, lasciando intravedere i diversi fiori, sovrapposti uno sull’altro.
Per un attimo, solo per un attimo, le era sembrato di attraversare quella porta, sentire il profumo delicato delle violette, e poi quello più intenso e dolce delle rose, coperto appena dall’aroma dei fiori di acacia. Un caos di profumi e consistenze senza alcun senso che però ancora ricordava vivamente. Adesso a distanza di anni, si chiese se davvero non ci fosse stata della magia, nel momento in cui si era trovata allo stesso tempo fuori e dentro il giardino segreto. Fuori nel mondo reale e dentro il libro.
In quei tre mesi a Serpeverde si era ricordata spesso di quel momento, osservando il tavolo dei Grifondoro da lontano, guardando Harry e Ron, scrutandoli come un’estranea, bramando ancora una volta di poter essere parte di quel calore. Eppure, sebbene sapesse fosse una finzione, giorno dopo giorno aveva sentito che in fondo anche appartenere a Serpeverde non era il male assoluto che aveva immaginato.
Tutti loro erano stati incasellati ed erano cresciuti in quella convinzione come strangolati da un vaso troppo stretto. Grifondoro con Grifondoro. Serpeverde con Serpeverde. E gli altri in mezzo, una sorta di tappabuchi. Di certo non era una cosa lusinghiera e poco ma sicuro non c’era niente di vero, ma doveva ammettere che era così. Lo era sempre stato, era evidente anche nel loro viaggio del passato.
Potentia para vis. La voce di Nicholas le risuonò all'orecchio così vivida che inconsciamente si girò per cercarlo, sperando ancora una volta di vedere quell’accenno di sorriso lontano che gli si disegnava sul volto solitamente impassibile.
Il potere è la nostra forza. Semplice, quasi brutale. Il motto di Serpeverde era affilato come le zanne del loro animale guida.
Eppure c’era molto di più dietro quella ricerca di potere: c’era la paura, il desiderio di primeggiare, la volontà di proteggere la propria famiglia con le unghie e con i denti.
Non erano usciti solo Tom Riddle, Bellatrix Black e i Lestrange da quella casa.
Si ricordò di Lumacorno, il professore di Pozioni prima di Piton che, nonostante la sua ingenuità e autocompiacimento di circondarsi di persone famose, aveva sul serio a cuore i suoi studenti.
C’era stata Andromeda Black, che per amore aveva rinunciato a tutto e si era ribellata alla sua stessa famiglia.
C’erano stati Nicholas e Arael, che per salvare il nipote avevano ucciso, ingannato, torturato. E che ora erano morti, vittime dei loro stessi inganni.
C’era stata Narcissa Malfoy che aveva lottato con le unghie e con i denti per la sua famiglia.
E c’era stata lei. Hermione Jane Granger.
Anche se solo per tre mesi.
Anche se sotto copertura.
Anche se per salvare il mondo.
Era stata una Serpeverde e lo aveva adorato. Anche se non l’avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura.
Sorrise incrociando lo sguardo di Draco, che, seduto a distanza di due tavoli la fissava dal bordo della tazza di porcellana decorata, mentre un uccellino di carta volava tra i due tavoli.
O almeno ci provava, visto che finì incenerito esattamente a metà strada, provocando una non proprio elegante espressione di disappunto proveniente dal tavolo dei serpeverde, di cui la parte più delicata e udibile probabilmente ad Hogsmeade fu un
«Vaffanculo, Sfregiato»
«Sempre un piacere, furetto» rispose con lo stesso volume e un gran sorriso quello che avrebbe dovuto essere uno dei suoi migliori amici, «Scusa Herm, mi va anche bene che tu abbia perso completamente il senso del bello e del gusto, ma queste cose melense non le sopporto.»
«E poi se non l’avessi notato cinque minuti fa stava quasi ficcando la lingua nell’orecchio di Pansy» gli fece eco Ron, servendosi di una generosa porzione di uova e pomodori mentre una nuvola nera di disappunto gli si addossava sulla testa.
Un secondo dopo, non senza averne approfittato per dare una gomitata alla nuca del bambino sopravvissuto. apparve la figura elegante ed odiata dalla maggior parte dei commensali di quel tavolo di un compassato Draco Malfoy, che si comportava come se non avesse fatto altro in tutta la vita che apparire alle spalle della speranza dei maghi
«Granger, visto che hai degli amici trogloditi te lo dico a voce: ci vediamo alle dieci alle carrozze per Hogsmeade. E, Lenticchia, tu sei l’ultimo che dovrebbe parlare, credimi. Mi stupisce che tu abbia ancora la testa sulle spalle. O meglio, qualcos’altro, tanto per te è la stessa cosa»
«Mi stai chiedendo un appuntamento, Malfoy?» lo provocò finendo di imburrare meticolosamente il toast e lanciando un’occhiata di avvertimento a Ron che sembrava pronto a saltargli alla gola. In effetti da quanto le aveva raccontato Harry sul comportamento dell’amico alla lezione di divinazione, Pansy aveva tutte le ragioni per rendergli la vita un inferno. Basta che non decidesse di usare Draco per vendicarsi e avrebbe anche potuto pensare di darle una mano, a dire la verità.
Lui ghignò «Fosse stato per me, l’avrei fatto in una maniera molto più elegante…ma come ho detto hai degli amici imbecilli…»
«Stai andando a fuoco, Draco» si limitò a commentare in tono piatto Ginevra Weasley aggiungendo un cucchiaio di miele al suo tè con una mano, mentre con l’altra aveva costretto Dean Thomas, seduto accanto a lei che già si era alzato per tirare un pugno a Malfoy.
Per un momento Hermione pensò che stesse scherzando, poi si rese conto che in effetti dall’orlo dei suoi costosi pantaloni sartoriali si stava levando un rivolo di fumo. E dalla faccia soddisfatta di una certa persona davanti a lei, sapeva benissimo di chi fosse il merito.
«Molto adulto, Potter, complimenti. E ora, prima di finire in punizione fino alla fine dell’anno io direi che è ora di andare» Blaise Zabini era apparso dietro a Draco e aveva iniziato a trascinare via il biondo di malo modo, seguito a poca distanza da Pansy Parkinson e Theo Nott, e girandosi verso di lei con un sorriso «Scusa Granger, vi vedete dopo ma vorrei evitare che Piton ci faccia fuori il prefetto. Ah comunque…ti sta bene quella maglietta, belle tette, di solito neanche si vedono»
«Di niente, Granger» commentò eloquente Pansy in tono magnanimo sapendo benissimo da dove venisse quella maglia. Poi molto casualmente la tazza che aveva in mano si rovesciò, ricoprendo la testa di Ronald Weasley di succo di zucca speziato, appiccicaticcio e soprattutto al limite dell’ebollizione. «Oh, pardon, sono inciampata…maledetti tacchi.»
Poi ghignando trotterellò dietro Blaise e Draco, la cui lite si riusciva ad udire perfettamente anche a quella distanza.
***
Ogni studente di Hogwarts ricordava il primo pomeriggio passato ad Hogsmeade, quando finalmente al terzo anno era permesso loro di uscire dai confini di Hogwarts. Il primo pomeriggio passato a gironzolare all’emporio degli scherzi di Zonko, girovagare per i vicoli della cittadina con le dita appiccicose per i dolci di Mielanda, l’odore della burrobirra speziata nelle narici. E le chiacchiere, le risate, le corse senza senso solo per il gusto di sentirsi liberi.
Certo poi le cose per lui erano peggiorate ed aspettava quel sabato del mese con angoscia e rassegnazione, sperando allo stesso tempo che passasse presto e che non arrivasse mai, trascorrendo intere nottate insonni con la voce di suo nonno e di Cassandra che gli rimbombava nelle orecchie.
Sorrise portandosi alle labbra la mano che teneva intrecciata alla sua, ignorando gli sguardi dei loro compagni. Ovviamente aveva tentato di scendere per primo per aiutarla, ma quella testarda di una grifondoro aveva capito le sue intenzioni ed era scesa di fretta e furia dalla carrozza, aspettandolo con aria soddisfatta.
«Sai che potresti provare ad essere un filo più romantica?» gli chiese dandole un bacio sulla guancia e spostandole un ricciolo ribelle. «Stavi bene con i capelli corti»
«Tu un filo meno sdolcinato e maschilista, ma non è colpa tua, visto di chi sei figlio. E smettetela di ossessionarmi per questi capelli. Prima erano troppo corti, ora troppo lunghi. Merlino come siete noiosi.» rispose ridendo sulle sue labbra e passandogli un braccio attorno alla vita. «Allora, dove hai pensato di andare per il nostro primo appuntamento Malfoy?»
«Com’è che siamo tornati a Malfoy da quando siamo tornati? Mi piace quando dici il mio nome, e soprattutto mi piace vedere Potter che strabuzza gli occhi e rischia di strozzarsi» rispose sistemandole la sciarpa bianca attorno al collo, e approfittando per darle un bacio veloce sul naso gelato.
«Visto che tu continui a fare lo scemo con le altre, direi che te lo meriti» rispose lei fingendo un broncio e alzandosi appena sulla punta dei piedi per baciarlo «E lascia stare, il povero Harry, Ginny già lo sta torturando abbastanza. Quindi dove andiamo? Da Madame Pie di Burro?»
«Granger, Granger.» rispose scuotendo la testa e continuando ad esercitare una leggera pressione sulla sua vita, spingendola con fermezza e delicatezza verso la via principale «Non vorrai mica dirmi che pensi sul serio che sia cosi dozzinale e banale da portarti in quella ridicola sala da thè insieme a quegli sfigati, vero?»
«Devo dire che hai sempre una buona parola per tutti. Allora? I Tre manici di scopa?»
Uno sbuffò fu tutto ciò che ebbe in risposta insieme ad un bacio veloce, prima che lui si allontanasse a lunghe falcate.
«Ma per Merlino! Guarda che scrivo a tua madre e le racconto che il suo perfetto figlio purosangue è in realtà un cafone maleducato» gli urlò dietro rincorrendolo e valutando se fosse il caso di lanciargli un paio di incantesimi impastoianti. Ma c’era troppa gente, tra cui un paio di prefetti delle altre case che non vedevano loro di mettere entrambi nei guai.
Si limitò quindi a rincorrerlo fino a quasi sbattergli contro quando lui si fermò di colpo, prendendola al volo prima che cadesse in terra, maledicendolo.
Hermione lo squadrò sospettosa: quello sguardo divertito negli occhi più blu che grigi non prometteva nulla di buono. Poi si girò a guardare la porta dove si era fermato, prima di aprirla con un gran festo plateale, cedendole il passo.
La prima cosa che sentì fu il famigliare odore della carta patinata, seguito da quello penetrante e polveroso dell’inchiostro. Il pavimento di legno scricchiolò appena sotto i suoi piedi. Davanti a lei pile e pile di volumi elegantemente ordinati l’uno sull’altro, i dorsi incisi che ammiccavano.
La piccola libreria alla fine della strada della strada principale era uno dei suoi posti preferiti, forse ancora più di Mielandia: il proprietario ormai la conosceva e le metteva da parte le nuove uscite, salutandola sempre con grande cortesia ed affetto ad ogni visita.
Di solito poi era molto meno frequentato rispetto a quella della via principale, un piccolo gioiellino che era sconosciuto alla mandria che si riversava nelle strade vociando, alla ricerca per lo più dell’ultimo romanzo di grido, spesso di quella grandissima delusione che si era mostrata Gilderoy Allock.
«Ero certa di averti intravisto un paio di volte, anche se avevi fatto finta di nasconderti dietro qualche scaffale» commentò ricordando tutte le volte che gli era parso di scorgere quegli assurdi capelli chiari come fili di luna ma si era detta che di certo Draco Malfoy, il borioso purosangue che conosceva lei non avrebbe perso il suo tempo in una libreria. Ovviamente si era sbagliata.
«Si, diciamo che mi rifugiavo spesso qui… prima di tornare al castello, mi aiutava a ricompormi. Mi piace questo posto, mi fa sentire bene» a quel commento Hermione si morse le labbra, mentre lui liquidava quei ricordi dolorosi con un gesto noncurante della mano. Poi la attirò di più a sé, chinandosi a sfiorarle il naso con un bacio leggero «Mia madre me ne parlava spesso quando ero piccolo e i proprietari ancora se la ricordano. Per questo sono stati più che contenti di farmi un piccolo favore.»
Hermione si ritirò appena, ancora imbarazzata che qualcuno potesse vederli in atteggiamenti intimi, ma poi si rese conto che attorno a lei non c’era nessuno. L’intero locale era vuoto, solo i libri a guardarli.
Lui rise soddisfatto, mentre con un gesto pigro della bacchetta il cartello alla porta avvertiva che la libreria sarebbe stata chiusa per tutto il pomeriggio «Ecco il nostro appuntamento, mia cara strega più brillante della sua generazione: prendi pure tutto quello che vuoi, basta che lasciamo una lista sul bancone. E visto che so bene quanto odi essere disturbata quando scegli i libri, io mi limiterò a guardarti dal piano superiore, dove ti aspetterò con tanta pazienza e la voglia di toglierti i vestiti»
Hermione girò su sé stessa, sbattendo un paio di volte gli occhi. Non sapeva se fosse l’idea di farsi Draco Malfoy al piano superiore di una libreria in pieno centro a Hogsmeade o quella di passare le prossime ore a scegliere libri, ma le sembrava di essere tornata una bambina alla notte di Natale.
Prima di iniziare a girovagare si voltò per baciare con foga il suo perfetto accompagnatore, ignorando quel ghignetto soddisfatto che aveva sulle labbra.
«Se hai preparato anche il tè e i biscotti potrei anche pensare sul serio che questo sia l’appuntamento perfetto» gli bisbigliò passandogli una mano tra i capelli sino a fermarsi con le dita sulla sua nuca.
Lui rise «Scherzi, Granger? So bene che sei più tipo da caffè che da tè. E comunque sì, ho pensato anche agli spuntini: dei piccoli e adorabili macaron. Quindi ora smetti di fare finta di essere interessata a me e al mio bel corpo e vai dai tuoi adorati libri.»
«Pretenzioso. Ma da uno che mangia i sandwich tagliandoli prima a striscioline non mi sarei aspettata altro» e con un ultimo bacio frettoloso lo lasciò per iniziare la sua caccia al tesoro.
«Visto che non sono un occamy, mi pare il minimo» rispose il biondo sgranando gli occhi come se gli avesse appena detto che si potesse tranquillamente vivere senza magia. Poi si sedette sulla poltrona più vicina, prendendo distrattamente uno dei libri in esposizione e sfogliandolo senza troppa attenzione.
«Ah, Granger... Pansy mi ha chiesto di dirti di tenerti libera il primo febbraio» disse con voce noncurante. Ma non ingannava nessuno, era evidente che aveva provato quella domanda molte volte nella sua mente
Hermione rispose appena con un verso non meglio identificato, richiamando almeno mezza dozzina di titoli su cui era curiosa e sedendosi in terra per esaminarli meglio «Credo di sì, perché?»
«Imbolc» rispose lui semplicemente, fissandola senza aggiungere altro.
«Imbolc?» chiese senza staccare gli occhi dalle prime righe del saggio che stava sfogliando.
«Imbolc» annuì lui «E’ importante per noi, molto. Gli uomini fanno un regalo alle donne della lora vita e loro…beh... principalmente è la loro festa. Solo loro posso prendere parte al rituale»
C’era qualcosa di strano nelle sue parole, una sorta di tensione che raramente gli aveva sentito.
«Per voi chi? I purosangue? Ron e Ginny non mi hanno mai parlato di questa festa. Voglio dire, so di cosa si tratta: il fuoco, la purificazione, la luna, la rinascita… il…oh cazzo» perché in quel momento aveva capito
Uno dei sintomi della conoscenza e della rinascita eterna.
«Benvenuta a Serpeverde, Granger» annui lui con un sorriso spostando lo sguardo «E che Merlino abbia pietà di noi»