
Il peso del silenzio
La prima notte a Spinner’s End fu un’interminabile spirale di pensieri. Harry non riusciva a dormire. Non per via del letto duro o delle lenzuola stantie, ma per il silenzio. Era un silenzio diverso da quello del sottoscala dei Dursley. Quello era un silenzio imposto, forzato dalla paura di disturbare. Questo, invece, era vuoto. Nessuno si sarebbe accorto se lui avesse urlato.
Si rigirò sul fianco, le coperte tirate fino al mento. La stanza era piccola, con muri grigi e scaffali di libri anneriti dal tempo. Nessuna finestra aperta. Nessuna luce filtrava da fuori. Eppure, era sveglio. Più sveglio di quanto avesse mai voluto essere.
Aveva provato a chiudere gli occhi. A pensare a Hogwarts. Alla sala comune di Grifondoro. Ai rari momenti in cui si era sentito, se non amato, almeno accettato. Ma i ricordi si spegnevano presto, soffocati da quelli più forti, più radicati. I ricordi della zia Petunia che sbatteva le pentole, del cinghiale di Dudley che lo prendeva in giro, dello zio Vernon che…
Il fiato gli si mozzò in gola. La mente gli restituì un’immagine improvvisa: il pugno di Vernon che si stringeva contro il legno del battente della dispensa. E poi quella volta — l’ultima — quando Harry aveva risposto. Quando aveva osato dire qualcosa. Non fu la punizione a fargli paura, ma il modo in cui Vernon lo aveva guardato: come se non fosse umano. Come se picchiarlo fosse più naturale che parlargli.
Si sollevò a sedere, premendo i palmi contro le tempie. Sentiva ancora quel terrore sotto pelle. Il bisogno di rimpicciolirsi, di sparire. Ma lì non c’erano urla. Non c’erano minacce. Solo Piton. E Piton… non urlava.
Ma il suo silenzio faceva altrettanto male.
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Quando scese al piano di sotto il mattino dopo, la casa era immersa nella stessa luce grigia del giorno precedente. Nessun odore di colazione, nessun rumore di vita. Solo il cigolio delle assi e il fruscio lontano di pagine che si voltavano.
Lo trovò in cucina. Piton era seduto al tavolo, immerso in un libro, una tazza di tè fumante accanto a lui. Non alzò nemmeno lo sguardo quando Harry entrò.
Harry si fermò sulla soglia, insicuro. Avrebbe voluto sedersi, ma ogni gesto sembrava sbagliato. Alla fine si avvicinò in silenzio, aspettandosi un rimprovero, uno sguardo di fastidio. Invece, nulla.
«Siediti,» disse Piton, senza smettere di leggere. Il tono era neutro. Non gentile, ma neppure ostile.
Harry obbedì.
Il silenzio durò ancora qualche minuto. Piton girò un’altra pagina, poi finalmente parlò.
«Dovrai rimanere qui finché non sarà sicuro rientrare a Hogwarts.»
Harry si irrigidì. Rimandare Hogwarts significava rimandare l’unico posto che lo aveva mai fatto sentire qualcosa.
«Per quanto?» chiese con voce bassa.
Piton chiuse il libro con un gesto secco. Finalmente lo guardò. Quegli occhi neri non erano vuoti. Erano pieni di cose che Harry non sapeva leggere.
«Non lo so. Dipende da… molte variabili. Sicurezza, ministero, Albus.»
Harry distolse lo sguardo. “Sicurezza.” Era sempre quella la scusa. Come se fosse una cosa da mettere via per evitare che si rompesse. Nessuno gli chiedeva mai cosa volesse lui.
«Perché mi hai portato via?» chiese. Era la domanda che gli bruciava dentro da giorni. E adesso l’aveva detta. Subito si pentì, ma era troppo tardi.
Piton non rispose subito. Si versò del tè, con movimenti lenti. Poi parlò, senza guardarlo.
«Perché i Dursley stavano facendo danni irreparabili. Perché non potevo più… chiudere gli occhi.»
Harry si girò di scatto verso di lui. «Ma perché tu? Non hai mai fatto finta di volermi intorno. Hai sempre…»
Piton alzò una mano per fermarlo. Non con rabbia. Con stanchezza.
«Non è una questione di volerlo. Non ti devo niente, Potter. E tu non devi niente a me. Ma… c’è una linea che nemmeno io riesco a tollerare.»
Harry lo guardò, confuso.
«Che linea?»
Piton si sporse leggermente in avanti. Per un momento, sembrò umano. Ma solo per un istante.
«Quella tra l’essere severi… e distruggere un bambino.»
Harry si sentì mancare l’aria. Non perché fosse scioccato dalle parole, ma perché nessuno, mai, aveva parlato così della sua vita. Nessuno aveva detto bambino con quella serietà.
Non aggiunsero altro. Piton si alzò e uscì dalla cucina lasciando la tazza mezza piena. Harry rimase lì, solo, con il cuore che batteva più forte del normale.
La casa era ancora fredda. Eppure, qualcosa era cambiato. Non in modo eclatante. Non come una porta che si apre, ma come una crepa minuscola che lascia filtrare un filo d’aria.
E forse, pensò Harry, era un inizio. O forse era solo un’altra illusione.
Ma stavolta… voleva scoprirlo da solo.