
L’ombra della solitudine
La casa di Spinner’s End non sembrava accogliere nessuno. Non c’erano risate, né luce calda che invitasse alla compagnia. Solo ombre e muri freddi. Il silenzio era opprimente, come una coperta troppo pesante che ti avvolgeva senza lasciarti spazio per respirare. Ogni passo di Harry nel corridoio sembrava echeggiare più forte dei suoi stessi battiti cardiaci.
Piton camminava davanti a lui, i suoi passi sicuri e pesanti, ma il suo corpo alto e snodato sembrava quasi spogliato di ogni emozione. Si muoveva come una figura che non era mai del tutto presente, come se la sua stessa esistenza fosse solo una sequenza di gesti automatizzati.
Quando raggiunsero il soggiorno, Piton fece un cenno con la mano, come se indicasse semplicemente dove potersi fermare, senza un particolare riguardo per come Harry avrebbe reagito.
«Siediti,» disse, la voce bassa, quasi come un comando. Non c’era cortesia in quel tono. C’era solo una freddezza che sembrava averlo pervaso in ogni parola che pronunciava.
Harry si guardò attorno. Non c’era nulla di accogliente. Nessun luogo dove sentirsi al sicuro, nessun accenno di casa. Si sedette sul divano, sentendo la stoffa ruvida e l’odore di polvere che sembrava venire da ogni angolo della stanza. Era come se il tempo si fosse fermato in quel posto, come se nessuno avesse mai vissuto lì.
Il silenzio che seguì fu pesante. Piton non si avvicinò, non cercò di fare conversazione. Rimase in piedi, distaccato, guardando fuori dalla finestra come se avesse bisogno di un momento per riflettere su qualcosa che non aveva a che fare con Harry.
Harry cercò di abbassare il respiro, ma la sensazione di impotenza cresceva in lui. Era come se fosse finito in un posto che non aveva nemmeno senso di chiamare casa. Un posto dove nessuno lo voleva, nemmeno Piton, che lo aveva “salvato” solo per ragioni che Harry non capiva.
Non riusciva a non pensare ai Dursley, alle umiliazioni, alle botte. A tutto quello che aveva sofferto. La sua mente continuava a tornare lì, ai giorni passati chiuso in quella stanza buia, senza nessuno che lo guardasse mai. Ma lì, in quella casa vuota, si sentiva ugualmente invisibile.
Finalmente, Piton si voltò verso di lui. I suoi occhi scuri scrutavano Harry con una intensità che sembrava vedere oltre le sue difese, come se stesse cercando qualcosa che Harry non voleva mostrare.
«Ti starai chiedendo perché ti ho portato qui,» disse Piton, ma la sua voce non aveva quella freddezza che Harry si aspettava. C’era qualcosa di più, come se Piton stesse pesando ogni parola che usciva dalla sua bocca.
Harry non rispose. Non riusciva a trovare le parole giuste. Il pensiero che Piton avesse fatto tutto questo per lui gli sembrava impossibile. Aveva visto troppo, subito troppo da parte di chi si diceva che fosse in qualche modo “responsabile” di lui. E ora si trovava lì, in quella casa, con un uomo che non sapeva nemmeno come comportarsi con lui.
«Non è per te,» continuò Piton, interrompendo il suo silenzio. «Non è mai stato per te, Potter. Ma non pensare che tu sia il solo a dover affrontare questo.»
Harry sollevò gli occhi. Le parole di Piton erano taglienti, ma non tanto quanto la realtà che stavano descrivendo. Piton non stava cercando di spiegargli nulla. Stava solo dicendo che anche lui aveva il suo carico da portare. E che Harry non era diverso.
Ma Harry non voleva sentire quel tipo di discorso. Non voleva sapere che Piton, a modo suo, aveva sofferto. Lui non avrebbe mai avuto la possibilità di scegliere, di cambiare. Lui aveva solo imparato a sopravvivere.
«Che cosa vuoi da me?» chiese, cercando di mantenere un tono di voce che non tradisse la sua frustrazione crescente.
Piton rimase in silenzio per un momento, come se la domanda non fosse mai stata rivolta a lui. Poi si avvicinò lentamente, senza mai distogliere lo sguardo da Harry. La sua presenza era così opprimente che Harry si sentiva come se avesse bisogno di fare un passo indietro, di scappare.
«Niente che tu possa comprendere,» rispose Piton, e le sue parole furono più fredde di quanto Harry si aspettasse. «Non sei qui per capire qualcosa. Sei qui perché non c’è altro che possiamo fare.»
Harry lo guardò, i suoi occhi pieni di rabbia e confusione. Aveva visto tante cose nella sua vita, ma non aveva mai avuto una risposta per ciò che aveva subito. E adesso, proprio qui, davanti a Piton, si sentiva impotente, come se non fosse mai stato capito da nessuno.
«Non voglio stare qui,» disse, le parole quasi soffocate dalla sua frustrazione. «Non voglio…»
Piton lo interruppe con un gesto imperioso della mano. «Non sei qui per chiedere il permesso, Potter. Nessuno ti ha mai chiesto se volevi essere qui. E ora basta con le domande.»
Il tono di Piton non ammetteva replica. Era lo stesso tono che Harry aveva sentito mille volte dai Dursley. Quello che gli diceva che la sua opinione non contava, che non aveva valore.
Harry si alzò bruscamente, ma Piton non fece un passo indietro. Rimase fermo, osservando Harry come se sapesse già che sarebbe successo. Ogni parola che Harry cercava di pronunciare sembrava schiantarsi contro un muro invisibile, senza alcun effetto.
Il giovane Potter si sentiva ridotto al silenzio. Ridotto a nessuno.
Piton lo guardò per un altro istante, poi si allontanò senza aggiungere nulla. La porta della stanza si chiuse dietro di lui, e il silenzio tornò a essere il padrone assoluto della casa.
Harry rimase lì, da solo. Non riusciva a capire se fosse la solitudine che lo stava distruggendo o qualcosa di peggio. Ma quella casa, quel luogo, non gli dava pace. Non c’era nulla che gli dicesse che sarebbe stato al sicuro, che avrebbe trovato un posto dove poter respirare. Nessuno lo aveva mai fatto sentire veramente amato.
E ora, di nuovo, si trovava a essere invisibile. Sospeso tra due mondi che non lo volevano.