
Qualcuno alla porta
Il dolore alla spalla non lo aveva lasciato.
Si era svegliato più volte durante la notte, sudato e irrigidito, e ogni piccolo movimento gliela faceva pulsare. Aveva provato a stringere i denti, a ignorare la fitta che gli tagliava il braccio ogni volta che cercava di cambiare posizione, ma il corpo non dimenticava, e nemmeno la mente.
La mattina lo trovò rannicchiato sul lato sano, lo sguardo fisso alla parete scrostata accanto al letto. Un ragno si muoveva lento tra le crepe dell’intonaco, silenzioso, più vivo di lui.
Scese dal letto senza far rumore. Vernon dormiva ancora, si sentiva il russare pesante dall’altra stanza. Petunia probabilmente stava già sistemando la cucina. Dudley… Dudley era un’incognita. Negli ultimi giorni si era fatto più silenzioso, quasi sfuggente. Non lo guardava più con la solita arroganza, ma con una sorta di timore muto.
Harry non ne era sicuro. Non era sicuro di nulla, a dire il vero.
Scese le scale, evitando come sempre il terzo gradino, e si mosse in cucina come un’ombra. Afferrò una fetta di pane rimasta nella dispensa — stantia, ma ancora mangiabile — e la infilò in tasca. Il rumore del tostapane gli avrebbe attirato occhi indesiderati. Meglio così.
Si rifugiò in giardino.
Il sole filtrava appena tra le nuvole spesse. L’aria era fredda per essere luglio, ma Harry la preferiva così. Il gelo era reale. Tangibile. Non come il vuoto dentro di lui, che si allargava senza suono.
Sedette sul marciapiede, dietro la siepe, nascosto alla vista dei vicini. Mordicchiò il pane con poca voglia. Il sapore gli si attaccava alla gola, secco, ma non smise. Doveva mangiare. Almeno un po’. Il corpo glielo chiedeva, anche se la mente voleva solo spegnersi.
Era lì da poco più di mezz’ora quando qualcosa cambiò nell’aria.
Un suono. No, un’assenza di suono.
Il vento si era fermato. Le foglie non frusciavano più. Era come se il tempo stesso avesse trattenuto il respiro.
Poi arrivò il gufo.
Non uno dei soliti. Non quello marrone che portava le lettere di Hermione, o quello candido — Hedwig — che non c’era più. Questo era nero come la pece, gli occhi simili a pozzi.
Lasciò cadere una busta ai suoi piedi, poi volò via senza un verso.
Harry non la raccolse subito. Rimase a fissarla. Il suo nome era scritto con un inchiostro così scuro da sembrare inciso nella pergamena.
Harry James Potter
Solo quello. Nessun mittente. Nessuna parola in più.
La toccò con due dita. Fredda.
Quando la aprì, la calligrafia dentro era familiare, ma non accogliente. Era ordinata, dura. Sottile come una lama.
Ore 18:00. Non oltre. Presentati all’ingresso. Non costringermi a venire a prenderti.
– S. Piton
Harry sentì il cuore rallentare per un istante.
Piton.
Perché lui?
Non c’era traccia di gentilezza in quelle parole, nessun accenno di preoccupazione. Ma nemmeno minaccia, non apertamente. Era come se Piton lo stesse convocando. Non chiedendo. Ordinando.
Perché adesso?
Perché lui?
Harry accartocciò la lettera e la infilò in tasca. Sarebbe tornato dentro. Avrebbe evitato lo zio. Avrebbe pensato. Forse. O forse avrebbe lasciato correre anche questo, come tutto il resto.
Ma appena mise piede in salotto, la porta principale si spalancò.
«Tu!»
Vernon era una furia. In pigiama, con la faccia paonazza. Nella mano stringeva qualcosa — la bacchetta di Harry. La sua bacchetta.
«Cos’è questa porcheria?!» gridò, agitando l’oggetto come fosse un serpente. «Hai ancora questa roba in casa mia?! Dopo tutto quello che ci hai fatto passare?!»
Harry fece un passo indietro. Solo uno. Non per paura, non davvero. Ma per istinto.
«Rimettila giù,» disse a bassa voce. La gola gli bruciava.
«Mi hai rovinato la vita!» urlò Vernon. «Hai portato guai, creature, esplosioni! Tua zia ha passato due notti sveglia dopo l’ultima apparizione di quegli uccelli maledetti! E ora? Ora cosa combini, eh?! Hai contatti con quella feccia?!»
Harry non rispose.
Non ne aveva bisogno.
Vernon alzò la bacchetta. E la spezzò.
Un crack netto, preciso. Il suono sembrò riempire tutta la stanza.
Harry non si mosse. Non urlò. Non fece nulla.
Il cuore gli cadde semplicemente nello stomaco.
Era la sua bacchetta. L’ultima cosa che aveva veramente sua. Che aveva scelto lui. Che l’aveva scelto. Ollivander aveva detto che era unica. Che era… viva.
E ora non c’era più.
Petunia sbucò dalla cucina. Lo vide con lo sguardo perso, le mani vuote. Si voltò verso il marito, poi verso il nipote. Non disse niente. Come sempre.
«Fuori,» disse Vernon. «Fuori da casa mia. Ora.»
Harry salì lentamente in camera. Raccolse lo zaino vecchio, ci mise dentro il libro che stava leggendo (o meglio, sfogliando), un maglione di Dudley ormai liso, e la foto di lui e Sirius — strappata a metà, ma ancora visibile.
Alle 18:00 era davanti al cancello.
Il cielo era plumbeo. L’aria odorava di pioggia e ferro.
Piton era lì.
Il mantello nero agitato dal vento, lo sguardo più tagliente di qualsiasi parola. Non sembrava più vecchio. Sembrava stanco. Ma la stanchezza in Piton era diversa: era velenosa. Silenziosa.
Harry lo fissò, immobile.
«Pensavo che avresti avuto il buon senso di risparmiarmi questa sceneggiata,» disse l’uomo.
Harry non parlò.
Piton avanzò. Lo scrutò da vicino, in silenzio. Gli occhi indugiarono sulla spalla rigida, sulle occhiaie, sulle labbra screpolate. E per un solo secondo — un attimo minuscolo — qualcosa cambiò nel suo sguardo.
«Fanno un lavoro migliore dei Mangiamorte,» mormorò. Non era sarcasmo. Era una constatazione.
Harry abbassò lo sguardo.
«Hai rotto la bacchetta?» chiese Piton, la voce ruvida.
Harry scosse la testa. «L’hanno rotta loro.»
Silenzio.
Poi Piton si voltò. «Seguimi.»
Harry rimase fermo. «Dove andiamo?»
Piton si fermò, senza guardarlo. «Altrove.»
E per la prima volta, la parola altrove sembrò significare qualcosa.