thank you, for playing with me

Harry Potter - J. K. Rowling Squid Game (TV 2021)
M/M
G
thank you, for playing with me
Summary
"Grazie Remus. Per aver giocato con me."Il quarto gioco di Squid Game è appena cominciato, così come un'amicizia destinata a durare un'ora.Potevano avere tutto, ma hanno avuto solo un'ora.

“Benvenuti al quarto gioco. Giocherete in squadre composte da due persone. Trovate una persona con cui giocare. Si diventa una squadra quando si decide di giocare insieme e ci si dà la mano. Ripeto. Giocherete in squadre composte da due persone. Trovate una persona con cui giocare. Si diventa una squadra quando si decide di giocare insieme e ci si dà la mano. Avete dieci minuti per organizzarvi in squadre da due persone ciascuna.”

Il numero 240 ascoltava la dolce voce robotica che istruiva il comportamento da tenere.
Sirius Black, 23 anni, debiti con più persone di quante si possa pensare una piccola cittadina come quella da cui proveniva lui potesse contenere. Il dettaglio che i suoi genitori fossero ricchi da far schifo e l’avessero lasciato a vivere una vita di stenti dai diciannove anni in poi era decisamente sopprimibile. I suoi occhi color ghiaccio, resi molto più profondi dal colore della tuta di quel gioco mortale a cui aveva deciso (per ben due volte) volontariamente di partecipare, vagarono per la stanza in cerca di un volto conosciuto. Sapeva di non poter contare sull’essere scelto per primo: era piccolo di statura per essere un ragazzo e non era di certo tutto questo granché di muscoli. Forse la sua mente era brillante, ma come potevano gli altri giocatori saperlo? Sarebbe andato lui a piazzarsi davanti a qualcuno e si sarebbe fatto portatore di ottime doti ludiche. Nonostante non avesse la minima idea di che gioco avrebbero dovuto affrontare.
Dall’altra parte della statica bianca stanza, nella quale echeggiava un silenzio che faceva venire il mal di testa, si aggirava il giocatore numero 067. Il sessantasettesimo ad essere stato reclutato. Il sessantasettesimo ad aver digitato le cifre telefoniche scritte dietro il bigliettino ed aver accettato di partecipare. I suoi capelli erano disordinati, i suoi occhi vispi ma apparentemente evasivi.
Remus Lupin, 22 anni. Orfano da pochi giorni dopo il suo sedicesimo compleanno, esperto ladro e criminale affermato nel paesino di sua provenienza. Un paio di risse finite male sul suo curriculum vitae. Niente di che, vi avrebbe detto lui.
Le sue dita affusolate non stavano un momento ferme, mentre il suo sguardo saettava a contare le coppie che già si erano formate. Dodici giocatori erano occupati.
Gli alleati che aveva avuto nei giorni precedenti non erano nei paraggi; due di loro erano già in squadra insieme. Avrebbe volentieri fatto a meno di partecipare a quel gioco, ma aveva il presentimento che chi non avesse trovato il partner entro i dieci minuti stabiliti (e qualcuno ci sarebbe stato, perché erano rimasti vivi in numero dispari fino a quel gioco) sarebbe stato ucciso.

Lui nella morte non ci aveva mai visto nulla di troppo spaventoso, ma farlo in un modo così poco scenico e freddo avrebbe ferito il suo orgoglio nel profondo.
Un brusio stava aumentando tra le quattro pareti bianche: c’era chi ridacchiava, chi descriveva le proprie qualità fisiche migliori. Chi fissava il soffitto, come il numero 240, notò Remus.
Magari era una tattica per prepararsi, per attirare qualcuno. E stava funzionando, perché i piedi del 067 si stavano muovendo esattamente in quella direzione. Ma parlare e chiedere di stringersi la mano, di formare una squadra, d’essere uno il partner dell’altro non era nei piani del giocatore in movimento.
Lui aveva già fatto il primo passo, nel gioco precedente, sedendosi accanto al ragazzo con i capelli scuri mentre giocava con le sue mani in grembo sulle scale aspettando di essere smistato in un gruppo per il tiro alla fune. Gli aveva chiesto di far parte del loro gruppo, della squadra che puntava tutto sulla forza fisica ma era finita col vincere solo con la genialità dei partecipanti.
Remus non avrebbe fatto un altro passo.
Ma non ce n’era stato bisogno, perché Sirius aveva fatto tornare le sue pupille lungo l’asse giusto e aveva notato l’altro di fronte a lui, con solo un paio di giocatori a dividerli.
Mancavano quattro minuti all’inizio del gioco.
“Ei, unisciti a me”, suggerì Sirius, arrivando a pochi passi da Remus e tenendo gli occhi fissi nei suoi. La differenza di altezza rendeva il tutto un po’ più difficile e quasi comico: se la prova era di forza, cos’avrebbero combinato in due?
“Perché dovrei?” chiese Remus, lo sguardo diffidente aveva scrutato Sirius solo per un secondo prima d’essere distolto.
“Vuoi implorare qualche vecchio per giocare con te? Sarebbe imbarazzante.”
“Non mi importa se è imbarazzante, m’importa di vincere. A tutti i costi.”
“Allora gioca con me. Farò in modo che tu vinca.”
“Facendo cosa?” gli occhi di Remus si fissarono in quelli di Sirius.
“Tutto il necessario.”
“Perché vuoi allearti con me?”
“Perché tu mi hai chiesto di allearmi con te per primo?”
“Mi sei sembrato uno disposto a fare squadra con me.”
“Per me vale lo stesso ora”, rispose Sirius, tendendo la mano in direzione dell’altro.
Lupin fissò la mano pallida dell’altro, poi si guardò intorno, riabbassò lo sguardo e strinse l’arto che gli si stava porgendo.
Fatto. Ora aveva una squadra.
“Sarà divertente”, sorrise il 240.
Remus sollevò di poco le labbra.
Non era passato molto tempo quando le guardie iniziarono a racimolare le coppie, assegnando a ciascuna di esse un supervisore vestito di rosso, con un’arma tra le mani sicuramente molto pesante e certamente carica, pronta a uccidere.
La stanza in cui vennero condotti era forse la più piccola in cui avessero mai giocato, o almeno lo sembrava.
L’impostazione di questa scenografia sembrava una vera e propria cittadina riproposta in scala. Uno dei giocatori più anziani urlava qualcosa sul come una casa somigliasse tanto a quella in cui abitava con la sua famiglia.
La guardia che era stata incaricata di guidare i due si fermò vicino a delle scale tra due muri di pietra e consegnò a ciascuno un sacchetto pesante. Remus, confuso, lo aprì per spiarne il contenuto. Biglie di vetro. Una decina, forse una dozzina. Non era riuscito ancora a contarle che la voce robotica riprese a parlare.
“In questo gioco dovrete usare le vostre dieci biglie per cimentarvi in una sfida col vostro partner. Vincerà chi riuscirà a rubare tutte e dieci le biglie del compagno. Ripeto. In questo gioco dovrete usare le vostre dieci biglie per cimentarvi in una sfida col vostro partner. Vincerà chi riuscirà a rubare tutte e dieci le biglie del compagno. “
Gli occhi si Sirius si posarono piano sulla figura di Remus, curva in avanti e con lo sguardo perso nel vuoto.
“Avete trenta minuti. Che il gioco abbia inizio.”
Trenta minuti erano talmente pochi per dire addio a una persona a cui si vuole bene, eppure così tanti per dirlo a chi non si è conosciuto solo il giorno prima. Conosciuto si fa per dire, nè Remus nè Sirius conoscevano rispettivamente il nome dell’altro.
Entrambi sospettavano che quelli sarebbero stati i trenta minuti più lunghi della loro esistenza.
“È così tragico”, sbuffò Sirius sedendosi sulle scale in pietra e rigirandosi il sacchetto tra le mani.
“A cosa giochiamo?” chiese Remus, spalle contro il muro e occhi chiusi.
“Sei così freddo, quasi come il ghiaccio. Dimmi un po’, sei davvero un criminale del calibro di cui ti hanno descritto in giro?”
“Smettila di fare così, dimmi a che gioco giochiamo e basta.”
“Tu devi dirlo a me. Questi giochi sono tutti da vecchi. Abbiamo dieci biglie ciascuno, possiamo creare il nostro gioco personale. Ci penserò su.”
Remus spiò di soppiatto Sirius, chiedendosi perché non avesse scelto un compagno di squadra normale. Ma il suo corpo era magnetico, e l’aurea di mistero che aleggiava intorno a lui lo rendeva ancora più invitante.
Rimasero in silenzio per cinque minuti buoni, fermi a fissare la squadra di fronte a loro che lanciava biglie e rompeva la quiete della loro bolla.
“Potremmo..”, esordì Sirius, esitante. “Fare un solo round e puntare tutto. Chi vince la singola partita vince tutto. Non credo tu voglia passare il tempo a prenderci in giro come loro”, suggerì, indicando con la testa i due uomini dall’altra parte della strada.
“Va bene, a cosa giochiamo?”
“Quanta fretta, muori dalla voglia di uccidermi eh?” scherzò Sirius, toccando però la nota dolente di Remus, che distolse immediatamente lo sguardo.
“Abbiamo solo un round. E ancora fin troppi minuti. Facciamolo all’ultimo. E fino ad allora parliamo.”
“Di cosa?”
“Di qualcosa che non abbiamo mai detto a nessuno. I segreti più profondi, i desideri più sfrenati. Uno dei due porterà i segreti dell’altro nella tomba, non vedo troppi problemi all’orizzonte.”
“Ci vedi un orizzonte?”
Sirius scoppiò a ridere, una biglia azzurra tra le sue dita si stava pian piano riscaldando.
“Ce ne vedo tanti, dipende da dove vuoi godertelo. Se da una spiaggia, dalla cima di una montagna, da un aereo o da una nave, da un sottomarino o in una macchina con la tua canzone preferita a pieno volume. Uscito di qui potrai provarli tutti.”
“Parli come se avessi già vinto.”
Sirius chiuse gli occhi, abbandonando la testa indietro e incrociando le braccia intorno alle gambe.
“Ti ho fatto una promessa lì fuori. Non mi piace doverle infrangere.”
E da lì in poi, Remus capì che parlare con qualcuno venticinque minuti prima di un’eventuale morte non era poi una così cattiva idea.
“Tu chi hai lì fuori?” aveva chiesto Sirius, gli occhi bassi e le mani tremolanti.
“Nessuno, sono completamente solo, se non consideri quel cagnolino tutto nero che mi segue in ogni posto in cui vada.”
Sirius sobbalzò, ferito. “Non consideri quel cagnolino importante? Sei davvero uno stupido! Povero piccolo, come si chiama? O non gli hai dato nemmeno un nome?”
Remus sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Si chiama Felpato.”
“Felpato eh? E com’è? Grande, piccolo, anziano, un cucciolo, descrivimelo un po’ che voglio immaginarmelo.”
“Non ho idea di che incrocio o razza sia, probabilmente solo un randagio, ma ha il pelo corto e due occhietti vispi che mi inquadrano dovunque. È un po’ più basso di così”, disse, indicando circa sessanta centimetri di altezza. “E gli piace molto farsi i fatti degli altri.”
Sirius sorrideva, con gli occhi chiusi, immaginando il cane davanti a lui. “Sembra davvero simpatico, quando usciremo di qui potrai presentarmelo.”
Il più alto si congelò sulle scale, anche se nemmeno prima avesse l’energia per muoversi.
“Lo sai che..”
“Certo che lo so”, lo bloccò scocciato Sirius. “Lo so che uno di noi da qui non ci uscirà. Vorrà dire che me lo presenterai da qualche altra parte.”
Il silenzio calò di nuovo tra loro due, e stavolta Sirius non l’avrebbe rotto.
S’era reso conto della grandissima scemenza che aveva detto, ma non poteva rimangiarsi nulla. Aveva aperto bocca senza pensare, come era sempre stato abituato a fare, soprattutto quando la sua unica preoccupazione era dar fastidio ai suoi genitori. Genitori che per lui, in quel particolare momento, erano il motivo per cui non avrebbe mai conosciuto Felpato, che sembrava davvero un cagnolino piacevole d’avere intorno. E il 067 appariva così infastidito dal fatto che Sirius sembrasse dimenticare che uno di loro due sarebbe morto che la volontà di far iniziare il gioco finale in quell’istante solo per non doverlo vedere mai più era davvero alta.
“Piaceresti molto a Felpato”, esordì Remus quando mancavano quindici minuti alla fine del turno. “Me lo ricordi, il suo pelo somiglia ai tuoi capelli.”
“I miei capelli sono bellissimi”, sorrise Sirius, mantenendo lo sguardo basso sul suo sacchetto di biglie che sembrava pesare dieci tonnellate. Forse una vita umana pesava tanto, pensò.
“Tu non hai nessuno lì fuori? Qualcuno che ti aspetta?” bisbigliò tremolante Remus, col terrore che il 240 non volesse più parlare con lui. Le biglie tra le sue mani pesavano cinquantamila volte di più.
“Potrei avere i miei genitori, se non avessero deciso che non avere un figlio fosse molto più semplice che averne uno problematico quanto me. Sono persone anziane, non biasimo nessuno. Probabilmente non avrei fatto lo stesso ma non potevo decisamente decidere per loro. E poi erano delle spine nel fianco, sono molto più felice così”, disse tutt’un fiato, zittendosi improvvisamente solo per sospirare. “Senza fissa dimora e con gli stessi vestiti di tre anni fa, ma con le loro preoccupazioni in meno.”
Remus deglutì, perché lui oltre a quel cane qualcuno ce l’aveva. Qualcuno che non faceva mai vedere al suo fianco, che non doveva incrociare i suoi passi nemmeno se quello fosse l’ultimo sentiero disponibile.
“Qualcuno c’è, oltre al cane..”
“Siamo a dieci minuti di distanza dalla morte e te la senti di prendermi in giro così? Sei coraggioso, 067”, scherzò Sirius. Non gliene poteva importare di meno di quanti segreti il suo sfidante volesse tenersi dentro, in dieci minuti sarebbe finito tutto. Si sarebbe fermato tutto.
“Era nell’orfanotrofio con me. È un ragazzo, mi intercetta qualche lavoretto da due soldi quando riesce e cerca di farsi vedere il meno possibile in mia compagnia.”
“Perché tu sei il criminale più temuto della città?”
“Perché non sono un buon partito. Meglio starmi alla larga.”
“Ma non mi dire, che cattivo ragazzo”, sghignazzò Sirius, spostandosi più vicino a Remus. “Così sono abbastanza lontano?”
“Sei un coglione.”
“Oh no, un insulto, morirò prima del tempo per questo”, rise Sirius, tornando a fissare la sabbia per terra. “È carino almeno?”
“Un po’.”
Quella conversazione non stava portando a nulla.
“Cosa farai uscito da qui, con tutti quei soldi, comunque?” chiese curioso Sirius, spostandosi un paio di gradini più in alto per lasciare le gambe a penzoloni.
“Non lo so. Vorrei visitare l’America, e avere una bella casa. E farmi un profilo rispettabile, non aver paura di far avvicinare i miei amici e-”
“Amanti.”
“Come fai a-”
“Ti prego, l’ho capito sin dal tiro alla fune. Conserva lo stupore, ti capisco perché i ragazzi piacciono anche a me. Dici sia il momento di cominciare a parlare al passato?” sbuffò il 240. “Mi sono piaciuti i ragazzi in questa breve e ignobile vita.”
“Tu cosa ci faresti con tutti quei soldi? Tu che fai sempre le domande per primo” chiese di rimando Remus, rimuginando su come fosse appena stato esposto.
“Non ne ho idea, non ci ho pensato. Potremmo andare in America insieme, io, te e il tuo amichetto. E il cane, voglio anche lui.”
Di nuovo calò il silenzio.
“L’ho fatto di nuovo, vero? Mi dispiace”, sussurrò sconsolato Sirius, per poi riprendere a parlare più energeticamente di prima. “Forse vorrei andare anche in qualche località di mare, d’inverno però. Quando soffia un vento talmente forte che non riesci a rimanere fermo sulla spiaggia, quando piove sempre e non si vede mai il sole. Col sole fa troppo caldo, anche d’inverno. E mi piacerebbe possedere un cinema. Sì, ecco, comprerei un cinema. Pensa avere accesso a tutte le sale con i posti migliori e i film appena usciti lì per te, con popcorn caldi e bibite fresche. O i cinema dove vendono anche le caramelle! Non ci sono mai andato lì, mi piacerebbe tanto averne uno con anche le caramelle. E forse vorrei prendere un cane anche io, o forse un gatto, o entrambi, forse anche un canarino o un pappagallo. E vorrei mangiare thailandese, non l’ho mai provato e mi incuriosisce molto. Oh! E vorrei terribilmente andare a Disneyland il periodo di Natale. E vorrei ricevere un regalo di Natale, e uno per il mio compleanno, che dovrebbe essere tra tre mesi. E mancano cinque minuti alla fine del gioco, dovremmo sbrigarci.”
Gli avrebbe voluto dire altre mille cose. Di come si fosse innamorato la prima volta, di quanto gli mancasse casa sua, del fatto che avesse già avuto sia un canarino che un gatto; voleva dirgli di suo fratello, di provare a contattarlo per lui se fosse riuscito ad uscire di lì. Voleva raccontargli del suo racconto giallo scritto a dieci anni, del voto che aveva preso e del disegno che vi aveva allegato. Voleva confessargli che s’era presa una bella cotta per lui quando l’aveva visto estrarre quella formina di caramello e che il fatto che avesse qualcuno ad aspettarlo a casa lo facesse sentire geloso marcio. E il fatto di non sapere nemmeno il suo nome lo faceva sentire in un film, ma probabilmente in uno di quelli senza lieto fine.

“Non puoi rovesciare tutto fuori così cinque minuti prima della fine. Non so nemmeno il tuo nome.”
“E tu non puoi dirmi cosa fare, 067. E mi chiamo Sirius, Sirius Black, e sono stato il numero 240. Tira la tua biglia.”
“Io mi chiamo Remus.”
“Lancia la biglia.”
“Remus Lupin.”
“Mh, Remus e Felpato. Chi la lancia più vicina al muro vince e rimane vivo.”
Remus si avvicinò alla linea che Sirius aveva tracciato con i piedi mentre parlava, e si mise a fronteggiare il muro. Il sacchetto nella sua mano destra pesava ancora più di quanto sembrasse pesare prima. Tra le sue dita sinistre veniva rigirata una biglia gialla.
Avrebbe potuto usare meglio quei minuti, avrebbero potuto parlare molto di più invece che rimanere a fissare la sabbia. Ma sarebbe davvero convenuto? Remus non poteva permettersi di affezionarsi, a lui non piaceva farlo, eppure gli erano bastati meno di trenta minuti. Ed era fottuto. Non aveva avuto il tempo di dire a Sirius che i suoi capelli erano davvero belli e sembravano molto morbidi, che avrebbe voluto passeggiare con lui e Felpato su una spiaggia qualsiasi, che avere qualcuno ad aspettarlo non era così semplice come poteva sembrare e non era sinonimo di felicità. Non pensava di poter più essere felice dopo un’esperienza del genere, non se ne fosse uscito vivo. Avrebbe voluto dire a Sirius che la sua più grande passione era dipingere, che avrebbe voluto fare un corso solo per diventare più bravo. Che avrebbe adibito una stanza della sua nuova casa, se fosse riuscito a prenderne una, solo alle tele che tanto gli mancavano. Gli avrebbe voluto dire che lui una volta c’era stato in quel cinema che sognava lui, con le caramelle, e aveva rubato un sacchetto pieno di rotelle alla liquirizia che gli avevano fatto venire il mal di pancia. Ma non avevano più tempo.
“Lasciala andare Remus, dai. Abbiamo tre minuti.”
Chiuse gli occhi, e la lanciò. Altri venti centimetri e avrebbe colpito il muro.
“Bel lancio!” esclamò Sirius. “Ora tocca a me!”
Si posizionò sulla linea, prese tra le dita una biglia blu e proiettò nella sua immagine la traiettoria che avrebbe dovuto far adottare alla pallina di vetro. Poi iniziò a contare. Uno. Due. Tre. E la biglia cadde esattamente ai suoi piedi.
“Oh.. ho perso.”
“Che significa?” iniziò ad urlare Remus. “L’hai fatto apposta, perché l’hai fatto apposta? Ritiriamo, non puoi fare così.”
“Non l’ho fatto apposta, hai vinto onestamente. Ho calibrato male la forza.”
“Cazzate”, ringhiò Remus, avvicinandosi a Sirius e sollevandolo dal collo della maglia. “Perché devi fare lo stronzo?”
“Remus”, ridacchiò Sirius. “Hai vinto. Va’ a prenderti quei soldi anche per me.”
“Non puoi”, sussurrò Remus, lasciando toccare terra a Sirius, rimanendo con le mani contro il muro e le labbra tremolanti. I suoi occhi erano lucidi e le ciglia scintillavano. “Non puoi farmi vincere così.”
“Sei un po’ egocentrico se pensi che ti abbia fatto vincere, dolcezza” sorrise il 240. “Ma sei molto bello, quindi probabilmente l’avrei fatto. È davvero nel mio stile.”
“Smettila.”
“Togli queste mani e fammi pagare la mia scarsa abilità nei riflessi, dai”, disse Sirius, allontanandosi e scappando dalle grinfie di Remus.
“Vai in America. E tieniti stretto quello che senti tuo. E, per l’amor del cielo, tratta meglio quel cagnolino!”
Remus tirò su col naso, guardando un’ultima volta Sirius negli occhi freddi che gli sorridevano. Poi si girò, dandogli le spalle e iniziando a camminare dalla parte opposta, completamente ignaro di dove stesse andando a causa della sua vista offuscata.
“E se dovessi andare in un cinema, mangia le caramelle anche per me. Le mie preferite sono le rotelle di liquirizia.”
Voleva parlare davvero fino alla fine.
“Remus, grazie.” Remus si fermò di botto. “Per aver giocato con me.”
Uno sparo, un tonfo.
Il quarto gioco era terminato.