Piume di Cenere

Harry Potter - J. K. Rowling
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Piume di Cenere
Summary
Il Ministero è caduto, le lettere di convocazione al Censimento per i Nati Babbani sono state inviate e quando Lydia Merlin riceve la sua, sa che è arrivato il momento di nascondersi. Ma una lezione che ha imparato durante i sette anni ad Hogwarts è che i suoi piani non vanno mai come dovrebbero.Un incontro fortuito con un ex compagno di scuola ed un bambino troppo chiacchierone le ricorderanno che la fuga non è un’opzione, e che in un mondo magico che ha dimenticato cosa sia l’umanità e la pietà, c’è ancora qualcosa per cui vale la pena combattere.Una storia di sopravvivenza, ingiustizia e dei mostri che si annidano nei luoghi più oscuri.Dall'Epilogo:«Corri!»Lydia sapeva che era arrivata la loro fine.Nulla li avrebbe salvati.Sfrecciò in mezzo ad un gruppetto di anziane signore, che reagirono lanciandole imprecazioni che mal si addicevano a delle così adorabili nonnine.«Scusate, scusate!»E ovviamente Lance perse tempo a cercare di farsi perdonare piuttosto che correre per salvarsi la vita.
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Capitolo 26 - Menzogne e verità

Capitolo 26
Menzogne e verità

 

«Lance?» Lydia bussò di nuovo alla porta serrata. «Lance, ti ho portato un biscotto.» In realtà, stretta nell’altra mano, vi era una busta intera di dolci dalle forme più strampalate. Una sirena senza coda, un gufo con mezza ala e una volpe con tre orecchie. «Lizzie ha cambiato idea: adesso vuole essere una pasticcera da grande. Ma non so se sono commestibili. Ti conviene preparare un antiveleno per tutti.»
Il silenzio che le rispose pesò come un macigno. Lydia deglutì e decise di ignorarlo, come faceva ormai da troppo tempo. «Ha messo anche l’essenza di vaniglia, tuo papà dice che ha sbagliato solo leggermente con le dosi. In ogni caso la cucina è stata dichiarata fuori uso per le prossime ventiquattro ore.»
Anche se il sacchetto che portava era sigillato, il profumo di vaniglia stava ammorbando l’intero corridoio. Se solo fosse riuscita ad introdurlo nel laboratorio, Lance sarebbe stato costretto ad uscire per la disperazione e l’assenza di ossigeno.
Batté il pugno sulla porta ancora sigillata. «Lance, apri, ti giuro che entro solo due secondi!» Due secondi in cui lo avrebbe trascinato fuori da lì e costretto ad esporsi a qualche raggio di sole. O almeno a prendere una boccata d’aria che non sapesse di vaniglia, o di pozioni. «Va bene.» sospirò. Non andava bene nulla ma mentire stava diventando insolitamente facile. «Allora ti lascio qui fuori il sacchetto, per quando…» Vorrai uscire, vorrai parlare, vorrai urlare. Qualsiasi cosa pur di risentire la sua voce.
Lasciò scivolare la busta a terra e, dopo un ultimo sguardo verso la porta ancora ostinatamente chiusa, si lasciò il corridoio alle spalle, portando con sé però il senso di vuoto che la attanagliava ogni volta che vi bussava. 
Lydia avrebbe dato qualsiasi cosa per possedere una Giratempo. Il pensiero la tormentava ogni giorno che era costretta a convivere con il gelido silenzio che la accompagnava ovunque andasse. Una cappa di oblio sembrava essersi riversata in casa O’Brien, coprendo ogni cosa con il suo manto. Qualche volta Lydia si ritrovava a sedersi sul pianerottolo del terzo piano solo per accertarsi di non essere vittima di un incantesimo del Silenzio. Ma nonostante tutti i suoi tentativi di convincersi del contrario, anche le voci dei bambini avevano perso quel tocco di vita che possedevano solo qualche settimana prima. O forse era Lydia a non riuscire più a percepirla. Non quando era costretta a vivere così sola anche se circondata da persone. Se solo Lance si fosse deciso ad uscire da quel laboratorio, allora tutto sarebbe potuto tornare come prima. O almeno essere un po’ più sopportabile. Ma lui si ostinava a restare lontano da tutti. Lontano da lei.
Per un istante, Lydia si sentì sopraffare dalla rabbia. Come poteva Lance chiuderla fuori così dalla sua vita dopo tutto quello che avevano passato insieme negli ultimi mesi? Erano stati inseguiti da Mangiamorte, scappati dai Dissennatori, andati a Diagon Alley, il posto più pericoloso di tutto il mondo magico, avevano persino imparato a gestire una mandria di bambini che in certi momenti facevano più paura di Colui-Che-Non-Doveva-Essere-Nominato in persona. Avevano passato troppo perché Lydia potesse accettare una porta chiusa. E non solo negli ultimi mesi, ma anche negli anni passati, e… il piede di Lydia mancò un gradino, mentre un’ondata di consapevolezza la travolgeva.
Come poteva giudicare Lance quando lei stessa si era comportata in maniera identica solo due anni prima? Non si trattava di una porta sbarrata nel suo caso, ma come altro si poteva definire il fatto che dal giorno dell’incidente lei non aveva più risposto alle lettere di Lance? Come poteva pretendere che Lance si aprisse con lei quando neanche lei aveva saputo farlo nel momento del bisogno?
Il dolore porta a fare cose stupide, pensò con rammarico.
Si lasciò scivolare a terra, il gelo dei gradini di pietra la aiutò a percepire di nuovo il proprio corpo.
Cosa poteva fare? Da un lato avrebbe dovuto lasciare a Lance i suoi spazi, proprio come lei non aveva voluto nessuno al suo fianco in quei mesi terribili quando tutto il suo mondo si era sgretolato in polvere. Dall’altra… Lance le era mancato. Era inutile negarlo. Ora che lo aveva ritrovato si era resa conto di quanto la sua vita era stata vuota senza la sua amicizia, di quanto la sua presenza l’avesse aiutata a ritornare ad essere la Lydia che era un tempo. Non poteva perderlo di nuovo.
Eppure non riusciva a muoversi.
Stava lì, raggomitolata sui gradini di una casa non sua, rabbrividendo, ma incapace di alzarsi. Immobilizzata da un unico pensiero.
‘E se mi odia?’  Il terrore le fece battere il cuore all’impazzata. Perché forse c’era un altro motivo per cui Lance si ostinava a tenere quella porta chiusa. Perché forse credeva alle parole di Caitlin: che era una codarda, e che Paul era morto anche per colpa sua.
Lydia nascose il volto nelle ginocchia. Prese dei respiri profondi, cercando di combattere il senso di nausea.
No. Paul era stato la causa della sua stessa rovina. Lydia non poteva permettersi di avere anche il suo sangue sulle mani. Ma non importava quello che credeva lei, solo quello che pensava Lance.
Il senso di nausea la lasciò boccheggiante. Aria, aveva bisogno di aria. Fu una motivazione sufficiente a farla risvegliare dalla sua paralisi. La prospettiva della dolce brezza primaverile che le soffiava sul viso la fece balzare sugli ultimi gradini che la separavano dal piano terra. La porta d’ingresso appariva ai suoi occhi come una rassicurante via di fuga.
Una via di fuga bloccata dalla signora O’Brien.
Lydia inciampò nei suoi stessi piedi e si fermò di fronte alla padrona di casa.
«Devo… andare nell’orto… a prendere… delle cose.» balbettò Lydia. La bugia non riuscì ad impietosire la signora O’Brien, che continuò a fissarla con le mani sui fianchi ed un’espressione che avrebbe terrorizzato Lydia se non fosse stata sull’orlo di una crisi di panico.
«Chi ha messo in testa a Liz l’idea di preparare i biscotti?»
«Io…» rispose sottovoce Lydia. A sua discolpa si era solo limitata a dire che dei biscotti alla vaniglia sarebbero stati fantastici con il suo tè. Non era colpa sua se la bambina aveva preso le sue parole alla lettera ed aveva provocato un principio d’incendio in cucina. Ma non disse nulla di tutto questo. Aveva imparato che quando la signora O’Brien si trovava in quel particolare stato d’animo (ben riconoscibile dalla presenza della vena che spiccava sul suo collo), era inutile cercare di spiegare o giustificarsi.
E così, un minuto dopo, si ritrovò armata di scopa e paletta di fronte alla porta della cucina sigillata con nastro isolante.
Beh, si ritrovò a pensare Lydia, almeno la punizione improvvisa aveva avuto l’effetto di impedirle di cadere in un attacco di panico al pensiero di Lance. E delle porte sbarrate.
Senza ulteriori esitazioni, strappò il nastro isolante ed entrò nella cucina, o meglio, nel campo di battaglia. Un sottile strato di farina ricopriva ogni superficie, mentre i fornelli e la cappa erano completamente anneriti. Probabilmente da qualche parte in quel caos si trovavano anche le ceneri delle sopracciglia di Lizzie, fortunatamente le uniche vittime dell’incidente.
La porta sbatté alle spalle di Lydia. Si voltò ed incrociò lo sguardo di Caitlin.
No.
No.
Non era possibile.
La signora O’Brien non poteva essere così tanto arrabbiata con lei.
Eppure Caitlin continuava a fissarla con il suo sguardo di ghiaccio ed un’inconfondibile set di scopa e paletta stretto nelle mani.
Caitlin fu la prima a distogliere lo sguardo. Senza dire una parola, raddrizzò il mento e si diresse verso l’angolo più pulito della cucina per iniziare a rassettarlo.
Lydia rimase immobile.
Nelle ultime settimane aveva imparato ad odiare ogni momento in cui si trovava nella stessa stanza con Caitlin. La tregua degli ultimi giorni dalle infinite piogge primaverili era stata, per Lydia, un sollievo proprio per il fatto che le dava la possibilità di uscire in giardino ed evitare il gelo che Caitlin le riservava.
Aveva sperato che le parole che le aveva riversato addosso il giorno della morte di Paul fossero dettate solo dal dolore e dal turbamento provato in quel momento, ma la realtà era stata ben diversa e composta principalmente da silenzi ostinati o frecciatine velenose. Lydia non aveva ancora deciso quale dei due trattamenti preferiva.
«Smettila di fissarmi come una stupida e pulisci.»
Meglio i silenzi, constatò Lydia.
L’angolo dei fornelli era quello messo peggio, ma era anche il punto più lontano da Caitlin. Lydia recuperò una spugna da sotto il lavello ed iniziò a sfregare il fornello bruciato.
Dopo quella maledetta sera, Lydia aveva smesso di rispondere alle provocazioni di Caitlin. Era difficile, diverse volte aveva dovuto mordersi la lingua talmente forte da farla sanguinare, ma non le avrebbe dato la soddisfazione di vederla cedere, o soccombere al senso di colpa. Perché in fondo era questo che Caitlin voleva, che lei ammettesse di aver ucciso Paul con le sue azioni, o con la mancanza di esse.
Ma Lydia avrebbe resistito.
Eppure…
Sfregò più energicamente. Alcune delle incrostazioni cominciarono a disintegrarsi sotto la spugna.
La parole di Caitlin erano come un veleno che si infiltrava lentamente nelle sue vene. Ogni giorno trascorso nel silenzio, ogni porta che Lance frapponeva tra di loro, ogni tensione che si viveva in casa O’Brien, tutto la portava a far sì che una parte di lei cominciasse a credere a tutto quello che Caitlin aveva detto, ed era solo con un grande sforzo che Lydia riusciva ad allontanare quei pensieri distruttivi, una fatica che diventava più onerosa e difficile ogni giorno che passava.
La spugna era diventata completamente nera. La immerse sotto il getto d’acqua corrente e rimase ad osservare il fiume scuro che scaturiva da essa.
Come aveva fatto la sua vita a sgretolarsi in così poco tempo?
«Ti puoi sbrigare?» Lydia strizzò la spugna, l’acqua schizzò ovunque andando a sporcare anche quella poca superficie che era rimasta pulita. «Bene.» sbottò nuovamente Caitlin. «Grazie per aver appena allungato la nostra punizione.»
Lydia chiuse gli occhi. Prese un respiro profondo e cercò di pensare alle cose belle che l’aspettavano una volta finito di pulire. La libertà, la solitudine…
Riaprì gli occhi. Durante le prime settimane che aveva trascorso in casa O’Brien il suo più grande desiderio era sempre stato rimanere da sola, lontana da bambini che pensava di non sopportare e adulti che non conosceva. Ora la prospettiva la terrorizzava. Avrebbe voluto credere di star esagerando, che in realtà non era rimasta realmente sola, ma era la triste verità. Lance era chiuso nel suo laboratorio, Katherine e Duncan, dal giorno del matrimonio, preferivano trascorrere la maggior parte del tempo in reciproca compagnia, mentre i signori O’Brien erano sempre impegnati con i bambini. Non aveva più neanche le visite di Silas, Cyril e Anthony ad alleggerirle le giornate visto che, dopo la morte di Paul e la minaccia alle loro vite, i signori O’Brien avevano deciso di tagliare ogni contatto con l’esterno, proibendo ai loro stessi parenti visite o messaggi tranne in casi di vita o di morte, che, fortunatamente, non erano ancora avvenuti.
Lydia sospirò e ricominciò a pulire i fornelli con una concentrazione tale che per alcuni minuti riuscì ad escludere dalla sua mente ogni pensiero e la presenza soffocante di Caitlin.
«È solo colpa tua se siamo qui.»
Questa volta per Lydia fu impossibile rimanere in silenzio. «Per la barba di Merlino!» sbottò «Non so cosa tu abbia combinato per farti mettere in punizione ma posso garantirti che non tutto quello che accade nella tua vita è per colpa mia.»
Caitlin la guardava con i suoi occhi di ghiaccio, la scopa ancora stretta tra le mani ed una minuscola collinetta di farina ai suoi piedi. «Hai ragione.» Lydia sgranò gli occhi per lo stupore. «Solo le cose brutte della mia vita accadono per colpa tua.»
Il viso di Lydia si accartocciò per la rabbia. Si strinse il labbro tra i denti e tornò ad accanirsi contro i fornelli.
«Lance l’ha già capito. È per quello che ti evita.» La spugna sfuggì dalle dita tremanti di Lydia. «Anche Duncan e Katherine lo sanno, e infatti stanno sempre per conto loro. Presto anche mamma e papà lo capiranno.»
Lydia rimase immobile a fissare la spugna abbandonata. E poi il vuoto dentro di lei si colmò di fredda ed inesorabile rabbia.
«Adesso basta.»
Il suo era solo un sussurro tra i denti stretti, che fu immediatamente coperto dalla voce di Caitlin: «Quando anche loro apriranno finalmente gli occhi allora-»
«Basta!» Il grido di Lydia risuonò nella cucina. Eppure Caitlin si limitò a sorridere beffarda. E il sangue nelle vene di Lydia cominciò a scorrere sempre più velocemente, dandole l’impressione di essere sul punto di prendere fuoco.
«Cosa c’è? Un pizzico di verità e sei già stanca?»
Lydia lanciò la spugna sul piano della cucina; tremava per la rabbia, o forse era stanchezza, o forse ancora tristezza. Non lo sapeva. L’unica cosa di cui era consapevole era che voleva solo zittire Caitlin. «Tu parli di verità. E allora lascia che ti dica anche io qualche verità. Sei una ragazzina viziata ed egoista.» Finalmente le parole di Lydia riuscirono a scalfire il sorrisetto di Caitlin. «Cosa c’è? Non vuoi sentirti dire come sei davvero?»
«Tu non mi conosci.» sibilò Caitlin.
«Hai ragione. Io non ti conosco. Ma conosco Lance, Duncan, Kate e i tuoi genitori. Li conosco bene ormai, e so che stanno male per colpa tua.»
«Non è vero.» ribatté immediatamente Caitlin.
Lydia continuò imperterrita, mentre una selvaggia soddisfazione la travolgeva per essere riuscita a togliere quello stupido ghigno dalle sue labbra. «E non solo nelle ultime settimane. È da anni che sopportano te e i tuoi piagnistei.» Era come se la diga dentro di lei si fosse rotta. Tutti i veleni, i silenzi, le porte chiuse che aveva dovuto sopportare nelle ultime settimane, la paura di sprofondare di nuovo in quel buio in cui si era persa prima di vivere in casa O’Brien, tutto ciò arrivò a reclamare la sua rabbia. Era ormai impossibile trattenere le parole. «E prima Caitlin vuole andare ad Hogwarts, e poi scopre che non può e allora no, non si può più parlare della scuola e guai ai tuoi fratelli se si azzardano a parlare di incantesimi davanti a te.»
«Smettila.»
«E poi c’è la guerra, ma tu vuoi uscire, e allora fai passare le pene dell’inferno alla tua famiglia perché secondo te ti stanno tarpando le ali.»
«Ho detto di smetterla!»
«No!» Lydia si fermò, il fiato corto e le guance arrossate. «No!» ripeté «È da settimane che non fai altro che insultarmi e dovrei semplicemente stare zitta per non urtare i suoi sentimenti? Dovrei fare come ha fatto la tua famiglia negli ultimi dieci anni? Guarda dove ti ha portata! A pensare di essere al centro dell’universo e che tutto ti sia dovuto.»
La rabbia di Lydia si rifletteva negli occhi di Caitlin «Nessuno mi ha mai regalato nulla.»
«La tua famiglia non ha fatto altro che cercare di renderti la vita facile, e solo perché eri gelosa di Lance! Tua mamma ha persino rinunciato alla magia per te, e tu non le hai mai detto un grazie! No, eri troppo intenta a far credere a Lance di essere un mostro, ma in fondo è questa la tua specialità, no? Far credere agli altri di essere abomini solo perché non hai il coraggio di guardarti allo specchio, e…» Lydia si bloccò.
Furono due cose a farle comprendere di aver appena compiuto un grosso sbaglio. Prima lo sguardo inorridito di Caitlin, secondo, la signora O’Brien, che la fissava dalla porta della cucina.
«Io…» balbettò Lydia. Da quanto si trovava lì? Le lesse la risposta sul viso attraversato da un fulmine di collera. «Io non volevo…»
La voce della signora O’Brien era di una tranquillità disarmante, l’opposto rispetto alla furia che comunicava il suo corpo. «Fuori da qui.»
Lydia si sentì svuotata, il suo cervello incapace di formulare una risposta che potesse sistemare la situazione, che potesse spiegare. «Non intendevo...» Non riuscì a proseguire. Perché lei credeva alle parole che aveva detto a Caitlin, ad ognuna di esse. Ed era stanca di nascondersi.
Anche la signora O’Brien lo capì. «Comprendo il tuo interessamento, ma l’aver trascorso questi mesi con noi non ti dà il diritto di giudicare le nostre scelte genitoriali, né di immischiarti in affari privati della nostra famiglia.» Lydia sbatté le palpebre. «Quindi ora ti chiedo di uscire da qui ed andare da qualche altra parte.» Lydia sussultò e si affrettò verso la porta della cucina. Quando le passò accanto, la signora O’Brien le posò una mano sul braccio per fermarla. «Un’ultima cosa. Non ti permettere mai più di insultare mia figlia o un altro componente della mia famiglia. Oppure dovrai trovarti un altro posto dove stare.»
Lydia ritirò di scatto il braccio, come se si fosse scottata, e corse via prima che madre o figlia potessero vedere la lacrime che cominciarono a scorrerle sul viso.
Il suo primo istinto fu percorrere le scale verso il seminterrato, ma il pensiero di quella maledetta porta sigillata la fece desistere. Imboccò invece la scalinata verso i piani superiori, qualsiasi cosa pur di allontanarsi dalla cucina. Non aveva fatto i conti con la mancanza di fiato. Dal momento in cui la signora O’Brien l’aveva afferrata, Lydia aveva smesso di respirare. Riuscì ad arrivare alla rampa di scale che separava il primo dal secondo piano prima che le sue gambe cedessero. Si lasciò scivolare fino a sedersi sul gradino.
Un’altra scala, un altro gradino rispetto a quello del seminterrato, ma la stessa solitudine. Anzi, infinitamente maggiore. Il respiro le tornò a rantoli.
La signora O’Brien era stata chiara. Lydia non faceva parte della famiglia.
Era stata una stupida, si rimproverò Lydia. Tutto quel tempo passato con gli O’Brien, le avventure che erano stati costretti a vivere, gli innumerevoli giorni trascorsi insieme: compleanni, momenti di tristezza, di gioia, o semplicemente di vita. Tutto questo aveva creato un ambiente talmente famigliare da sembrarle casa.
Ma quella non era casa sua.
E gli O’Brien non erano la sua famiglia.
La consapevolezza le crollò addosso, facendola sentire completamente persa.
Era sola.
Sola in una casa in cui nessuno la considerava indispensabile. Lance era inavvicinabile, Duncan e Katherine avevano l’uno l’altra, i bambini le volevano bene ma ognuno di loro avrebbe preferito trovarsi con i suoi genitori. E la signora O’Brien e Caitlin avevano reso ben chiari i loro sentimenti. Non c’era più nulla che la legava a quelle mura.
Un singhiozzo risuonò nelle scale.
Lydia impiegò diversi secondi per capire che non era provenuto da lei.
Sollevò lo sguardo.
Altri singhiozzi si unirono ai primi, e Lydia si ritrovò a seguirli salendo le scale fino a raggiungere una figura raggomitolata sul pianerottolo del terzo piano.
Lydia dimenticò immediatamente le proprie lacrime.
Si sedette accanto alla sagoma singhiozzante e con delicatezza, la strinse in un abbraccio. Henry nascose il viso tra le sue braccia. «Cosa succede?» Il pianto del bambino divenne ancora più disperato. Lydia posò le labbra sui suoi ricci. «Va tutto bene.» No, non andava tutto bene. La bugia pesava come un macigno. «Se Simon ti ha fatto ancora qualcosa…»
«Non è stato Simon.» la interruppe Henry.
«Allora chi?»
«Nessuno.»
Lydia sollevò il volto di Henry, cercando di leggere la verità nei suoi occhi arrossati. «Puoi dirmi la verità, Henry. Risolverò tutto.»
«Voglio la mia mamma.»
Ecco. Aveva appena fatto un’altra promessa che non poteva mantenere. Mancavano solo un paio di giorni al compleanno di Henry, e i bambini tendevano ad avere maggior nostalgia di casa attorno al loro compleanno. Avrebbe dovuto saperlo. «La mamma aveva promesso che ci saremmo rivisti al mio compleanno. E che mi avrebbe portato alle giostre, e avremmo mangiato una montagna di zucchero filato, ma io le ho detto che troppo zucchero filato fa male alla pancia.» Henry tirò su con il naso. «Non dovevo dirglielo. Si è arrabbiata e adesso non mi porta più alle giostre.»
«Oh, no, Henry. Sono sicura che la tua mamma vorrebbe tanto stare con te, e ti porterebbe alle giostre se solo potesse.»
Henry si asciugò il naso con la manica. «Harry Potter deve sconfiggere Tu-Sai-Chi, almeno la mia mamma può tornare da me.»
Lydia lo strinse ancora più forte.
«Sono sicura che succederà presto.» In fondo aveva già mentito talmente tante volte che una bugia in più non avrebbe potuto fare così male «E intanto ci siamo noi, Henry. So che non siamo la tua mamma, ma ti vogliamo tutti bene, lo sai, vero?»
«Non è vero.»
Lydia corrugò la fronte. «Certo che è vero. Ti vogliamo bene, Henry. Vogliamo bene a tutti voi.»
«E allora perché continuate a litigare?» Per un istante, Lydia temette che il bambino avesse sentito la conversazione appena avvenuta in cucina, ma fu il bambino stesso a liberarla dalle sue paure e riempirla però di altre inquietudini «No, non litigate. Però non vi parlate. Caitlin non ci parla più, Rose è stanca di noi, Lance non lo vediamo da tantissimo.»
Lydia avrebbe voluto con tutto il cuore consolarlo, promettergli che era solo una sensazione, che non c’era nulla di vero. Ma neppure lei aveva il coraggio di ingannarlo in quel modo.
Henry tirò su con il naso. «Almeno ci sei tu.»
Ed eccolo lì il motivo che ancora la legava a casa O’Brien. Una persona, anche se minuscola, che aveva bisogno di lei.
E a tale consapevolezza, qualcosa dentro di lei scattò. Perché se il suo unico compito rimasto era quello di rendere felice Henry, allora avrebbe fatto qualsiasi cosa per non fallire almeno in quello.
«Andiamo.»
Henry la fissò perplesso.
«Andiamo!» ripeté Lydia, afferrò la sua mano e corse giù dalle scale. La porta della cucina era ancora chiusa e non c’era anima viva nella sala. La strada che conduceva alla porta d’ingresso era completamente sgombra. Si affrettò verso l’atrio, trascinando il bambino con sé.
«Dove andiamo?» chiese Henry. Lydia lo zittì infilandogli la sciarpa e coprendogli la bocca. Dopo averlo costretto ad indossare la giacca, prese anche la propria ed aprì lentamente la porta d’ingresso. Dieci secondi dopo, Lydia ed Henry si trovavano davanti al cancello di casa O’Brien.
Era da quando erano arrivati per la prima volta quella sera di agosto che Henry non usciva dalla proprietà.
Era ora di cambiare le cose. Perché Lydia era stanca di vivere seguendo le regole di altri, nel terrore che un suo gesto potesse distruggere tutto quanto. Per una sera, per una sera soltanto, voleva solo tenere lontana la solitudine e la tristezza, ed impedire che anche Henry si trovasse vittima di esse.
Senza alcuna esitazione, Lydia strinse la mano di Henry e varcò il cancello.
 

 

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