
Dieci anni dopo
Dieci anni dopo
La signora Amelia Smith ne aveva abbastanza.
Quando trenta anni prima aveva accettato di lavorare all’orfanatrofio Saint Michel come direttrice si era aspettata di dover avere a che fare con una serie di bambini difficili e maleducati, ma ora era arrivata al limite.
Era suo vanto il fatto che nella sua rispettabile carriera avesse riportato ogni singola anima che le era stata affidata sulla via della ragione, la via che li avrebbe condotti «ad una vita rispettosa e vissuta secondo i principi del nostro Signore», come continuava a ripetere a tutti i bambini che le venivano affidati. Certo, aveva avuto dei casi davvero problematici, ma fino a quel momento era sempre riuscita a gestirli da sola, come si vantava spesso con le sue amiche del circolo del cucito. «Ebbene sì, un bel po’ di disciplina è quello che ci vuole con i più disgraziati. Funziona sempre.» affermava con orgoglio e aria di superiorità. Subito dopo aveva la tendenza di elencare una serie di bambini che dopo essere stati affidati alle sue cure erano cresciuti diventando adulti rispettabili e importanti in città, senza accorgersi che le altre signore del circolo si limitavano ad alzare gli occhi al cielo, conoscendo perfettamente quell’elenco che si ripeteva ormai da trent’anni e al quale la signora Smith aggiungeva di rado nuovi nomi. Ovviamente non aveva mai accennato invece alle decine di bambini che avevano implorato di essere affidati ad un altro orfanatrofio piuttosto che dover trascorrere tutta la loro infanzia e adolescenza con lei, in fondo era riuscita sempre a scoprirli e a provocare in quei piccoli ingrati uno spavento tale che non avevano più cercato di scappare dalle sue grinfie.
Finora era sempre riuscita a riportarli tutti in riga, e anche quando le avevano presentato un bambino di cinque anni che era già stato scacciato da tre diversi orfanatrofi della Gran Bretagna, aveva pensato che avrebbe impiegato solo poco tempo per sistemare anche lui.
«Datemi tre mesi e non avrà più il coraggio neanche di parlare senza essere interpellato.» aveva dichiarato convinta all’assistente sociale che lo aveva accompagnato.
Eppure erano trascorsi tre anni ed Ellar Dewis continuava ad essere un «piccolo demonio», come veniva chiamato in continuazione dalla direttrice.
Dal momento stesso in cui aveva messo piede nell’orfanatrofio, si era dilettato ad organizzare burle e scherzi nei confronti dalla direttrice, la quale, come continuava a ripetere alle sue amiche del circolo di cucito, cercava solamente di fargli mettere la testa a posto. Una volta, dopo averlo sentito dire ai suoi vicini di dormitorio che lui era un mago, Amelia Smith lo aveva strattonato fuori dal letto e condotto nella lavanderia strillando che affermazioni del genere attiravano i demoni ed aveva cercato di fargli mangiare del sapone per, a suo dire, salvarlo dall’impurità di quelle parole. E fu proprio in quell’occasione che iniziarono le stranezze. Infatti per quanto la direttrice tentasse di afferrare la saponetta, quella continuava a sfuggirle dalle mani e schizzare dall’altra parte della stanza. E quando si era chinata per raccoglierla, il sapone era di nuovo sgusciato via ed era stata costretto ad inseguirlo per oltre venti minuti prima di rendersi conto che di sicuro era stato Dewis ad attaccare alla saponetta un filo invisibile per farla allontanare non appena le grassocce dita della direttrice vi si avvicinavano. Per punizione lo aveva rinchiuso per un giorno intero nella lavanderia, nota a tutti gli inquilini dell’edificio per il gelo che la contraddistingueva e per gli strani rumori che provenivano dalle tubature. Amelia Smith pensava che questa punizione avrebbe messo il terrore nel cuore di quel terribile bambino come era successo a decine d’altri prima di lui e di sicuro i problemi sarebbero terminati. Invece no, quella vicenda aveva dato inizio ad una serie di eventi ancora più strani! Ogni volta che tentava di punire il bambino succedeva qualcosa che una mente meno dotata d’intelletto, come adorava raccontare alle altre povere signore che volevano solamente finire i loro punti croce in pace, avrebbe potuto definire davvero magia. Ma lei sapeva che cos’era. Erano i piccoli spiriti malvagi che si aggiravano invisibili attorno a quel disgraziato.
E quando si accorse che gli altri bambini e ragazzi ridevano alle sue spalle per i suoi goffi tentativi di correggere Dewis, decise che quella storia doveva assolutamente finire.
Bastarono alcune false accuse e depistaggi per fare in modo che tutti gli inquilini dell’orfanatrofio voltassero le spalle al giovane Dewis e lo iniziassero a considerare un delinquente. Amelia Smith rubò e distrusse innumerevoli effetti personali dei bambini, facendo in modo che Ellar Dewis si trovasse sempre sul luogo del misfatto e non potesse avere un alibi che lo giustificasse agli occhi degli altri. In una settimana era riuscita nel suo intento, il quale, continuava a ripetere, era «Solo per il bene del bambino, ne ha bisogno per capire che i suoi sporchi trucchetti e la sua anima impura non lo possono proteggere nella vita, ha bisogno di qualcuno che gli indichi la retta via»; il giovane Dewis infatti si trovò emarginato, nessuno cercava più né la sua compagnia, né di aiutarlo nel momento del bisogno, ma neanche così i guai finirono per la povera signora Smith.
Ebbene sì, Dewis, per vendicarsi del tradimento dei suoi compagni, aveva iniziato a combinare i suoi diabolici scherzi anche nei loro confronti! Prima aveva fatto trovare del fango e dei ratti nei letti dei ragazzi che avevano rotto il libro che aveva portato con sé quando era arrivato all’orfanatrofio, poi aveva fatto diventare verdi le chiome delle bambine che lo avevano deriso in cortile per i suoi capelli troppo lunghi. Un’altra volta alcuni ragazzi lo aveva appeso a testa in giù per qualche ora ad un albero del cortile (naturalmente la signora Smith se ne era accorta, nulla sfuggiva ai suoi occhi attenti, ma aveva pensato che poteva essere un buon metodo di disciplina), però quando la sera il gruppetto si era seduto a tavola per la cena, avevano ricevuto una scossa talmente potente che due di loro erano svenuti.
Ma il peggio era avvenuto la sera precedente a cena.
La direttrice sospirò nel ricordare l’accaduto. Ellar Dewis aveva preso il suo piatto di zuppa e stava tornando al suo posto quando era improvvisamente inciampato (in seguito aveva cercato di convincerla che qualcuno gli aveva fatto lo sgambetto, ma la direttrice sapeva benissimo che il bambino stava dicendo una bugia), per punizione per la sua testa tra le nuvole, era stato costretto a pulire il pavimento dalla zuppa rovesciata e in seguito a stare in piedi a guardare tutti gli altri cenare. Un quarto d’ora dopo era successo il disastro: uno dopo l’altro i ragazzi avevano iniziato a sentirsi male, finché tutti tranne i bambini più piccoli, soffrivano talmente tanto che la signora Smith (anche lei parecchio dolorante) era stata costretta per la prima volta nella sua onorata carriera a chiamare i soccorsi. Intossicazione alimentare, avevano sostenuto gli investigatori, e la signora Smith ora avrebbe dovuto affrontare un’ispezione.
No, non poteva più accettare quella situazione, così quella mattina aveva subito chiamato il comune per richiedere l’intervento di un’assistente sociale che si occupasse del bambino. Ma erano le otto di sera e nessuno si era ancora presentato. Ellar Dewis doveva andarsene prima dell’ispezione della mattina successiva, non avrebbe rischiato il suo adorato lavoro per colpa di un moccioso delinquente.
La signora Smith spiò ancora fuori dalle finestre. La pioggia batteva sulle sporche vetrate, il buio era tale che distingueva a fatica il giardino, rischiarato solamente da qualche lampo improvviso. I bambini erano già stati spediti a letto, qualcuno dei più piccoli aveva pianto non volendo rimanere al buio con il forte temporale, ma la direttrice aveva dimostrato la sua fermezza spegnendo tutte le luci prima ancora che avessero il tempo di infilarsi nei loro letti.
Un altro lampo.
Nessuno sulla via che conduceva all’orfanatrofio.
«Mai fidarsi degli altri. Mantenuti dallo stato, ecco cosa sono gli assistenti sociali.» borbottò lasciando ricadere la tenda.
Proprio in quel momento il campanello suonò. La signora Smith sollevò di nuovo il lembo della tenda e si accorse incredula di un’ombra davanti alla porta. Ma aveva appena guardato… no, il buio doveva avere giocato un brutto scherzo ai suoi occhi stanchi. Si sistemò la veste, alzò il mento e ingrossò il petto, doveva fare subito capire a quell’assistente sociale chi comandava lì.
Quando aprì la porta riuscì a distinguere meglio l’ombra che aveva intravisto dalla finestra. E non le piacque neanche un po’.
La donna all’ingresso indossava un lungo mantello, il cui cappuccio era sollevato e le copriva parzialmente il volto (e quel poco che la signora Smith riuscì invece a distinguere le fece provare un forte disgusto).
«Buonasera. Sono l’assistente sociale che il Comune ha contattato per il caso di Ellar Dewis.» Il tono della donna era fermo e deciso. «Mi scuso per non essere riuscita ad arrivare prima, ci sono stati alcuni problemi con il trasporto pubblico ed il viaggio dalla Scozia è stato più lungo del previsto.» Ritardataria e anche bugiarda, e perché nel parlare aveva lanciato uno sguardo risentito verso il camino?
«Se questo è il servizio che offrite dovrete migliorare parecchio.» ribatté decisa la direttrice, cercando di raddrizzare maggiormente la sua postura per recuperare alcuni dei centimetri di differenza che la separavano dall’assistente sociale. Non le piaceva quella donna, non il suo aspetto né il suo modo di fare. Ma forse era quello che ci voleva per il giovane Dewis: una donna terrificante che lo portasse via nel mezzo della notte, durante uno dei temporali più spaventosi degli ultimi anni. Sarebbe rimasto talmente traumatizzato che non avrebbe mai più provato a compiere le sue orribili malefatte.
La direttrice fece cenno alla sua ospite di entrare e notò con orrore che la donna non si tolse il mantello ma proseguì per l’atrio gocciolando sulla moquette. Incompetente e maleducata.
«Dove si trova il bambino?»
«Nel suo dormitorio.»
«Bene. Così potrà raccontarmi meglio quali problematiche sono insorte nel prendersi cura di lui.»
Si trovavano in piedi nell’atrio ma la signora Smith non accennò neanche lontanamente a chiedere alla sua ospite se gradiva qualcosa da bere o anche solo una sedia. Considerando che non aveva ancora tolto quel dannato mantello poteva starsene lì a gelare nell’atrio, e poi solamente che il bambino abbandonasse l’edificio il prima possibile.
La signora Smith gonfiò di nuovo il petto ed iniziò a raccontare tutte le stramberie che erano accadute da quando Ellar Dewis aveva messo piede nel suo onorato orfanatrofio, facendo particolare attenzione a sottolineare come lei aveva tentato in tutti i modi di riportarlo sulla retta via. Era talmente presa dal suo racconto da non accorgersi che il viso della donna diventava sempre più teso, talmente tanto che ad un certo punto i suoi occhi scoccavano scintille di rabbia, e invece la signora Smith, ignara di tutto ciò, continuò ad elencare tutti i suoi tentativi falliti di impartire la disciplina a quel bambino.
«E lei» la interruppe ad un certo punto l’assistente sociale con un tono glaciale «Usa questi metodi di disciplina anche nei confronti degli altri bambini?»
«Oh sì.» rispose convinta la direttrice, annuendo vigorosamente «Li cresco così da trent’anni e mi creda, hanno tutti trovato la via della ragione.» continuò con molto orgoglio. La pioggia continuava a sferzare le finestre e un tuono risuonò così vicino che la casa sembrò tremare. La signora Smith alzò gli occhi al soffitto e si rese conto che il lampadario stava davvero oscillando, della sottile polvere cadeva dall’intercapedine delle assi e le lampadine sembrava soggette ad alcune interferenze. Avrebbe dovuto cambiarle prima dell’ispezione. Fu distratta dal respiro profondo dell’assistente sociale, un altro respiro e il lampadario smise di tremare e la luce tornò continua.
«Mi serve la documentazione di Ellar.» La voce della donna sembrava quasi tremare anch’essa.
La signora Smith annuì di nuovo. «Mi segua.» E di nuovo con il mento sollevato, condusse la giovane donna più avanti nella stanza, dove si trovava un grosso armadio in cui teneva tutte le documentazioni necessarie, spalancò le ante e incominciò a frugare, avrebbe dovuto pensarci prima e preparare tutto, dopo tre anni chissà dove erano finite.
«Eccole!» esclamò soddisfatta la signora Smith raddrizzandosi e tenendo trionfante un plico di fogli impolverato. Si voltò per porgerli all’assistente sociale, lieta che quella storia fosse finalmente giunta verso la sua fine. Solo allora si rese conto che l’attenzione dell’altra donna non era rivolta verso di lei ma alla foto che adornava la scrostata parete dell’atrio.
«È bella, vero?»
Era vero. La ragazza raffigurata nella foto era di una bellezza straordinaria. Quella foto era motivo di orgoglio per la signora Smith, adorava mostrarla a tutti coloro (pochi) che entravano nell’orfanatrofio perché le dava l’occasione di raccontare il tragico incidente che era avvenuto in quelle mura dieci anni prima. Di solito il suo racconto veniva seguito da una serie di complimenti per il coraggio dimostrato dalla signora Smith in quella storia (era anche il motivo per cui le signore del circolo del cucito non l’avevano ancora buttata fuori dal loro gruppo, ma questo lei non lo sapeva). Certo, se avessero scoperto che in realtà lei era corsa via appena aveva intravisto i malintenzionati lasciando i bambini al loro destino non avrebbe più ricevuto parole compassionevoli e ammirate.
Lo sguardo dell’assistente sociale si spostò alle decine di disegni che circondavano la foto. Si avvicinò di qualche passo e abbassò il cappuccio del mantello per vedere meglio, rivelando una cascata di capelli rossi. Ma fu un altro particolare ad attirare l’orrore della signora Smith: l’orrida cicatrice che le attraversava metà viso. La signora Smith rabbrividì e si ritrovò a pregare che la donna si rimettesse il cappuccio e coprisse di nuovo il volto. Invece la donna sollevò un braccio e tracciò delicatamente con un dito il contorno di un disegno.
«Ah…» La signora Smith si schiarì la voce, di solito avrebbe accolto al volo l’occasione per poter raccontare ancora una volta la drammatica vicenda che aveva segnato la sua vita, ma, soprattutto dopo aver visto bene il suo viso, desiderava solamente che la donna se ne andasse per sempre dall’orfanatrofio e dalla sua vita. «I bambini le continuavano a fare dei disegni.» Dopo un anno dalla tragedia era finalmente riuscita a dissuaderli dall’attaccare altri disegni, soprattutto considerando che non facevano altro che rovinare il suo muro imbiancato solo sedici anni prima. Aveva pensato di staccarli tutti, ma sapeva perfettamente che di solito i suoi ospiti si commuovevano proprio nel vedere quanto i bambini tenessero alla loro salvatrice.
«Disegnano lei.» specificò l’assistente sociale, lo sguardo che vagava da un foglio all’altro. Era vero, in tutti i disegni, anche in quelli dei più piccoli, si poteva riconoscere chiaramente la ragazza, soprattutto dai suoi lunghi capelli neri. «La disegnano con le ali.» continuò con voce commossa.
«La definiscono il loro angelo, pensano che lei sia sempre qui a proteggerli. I bambini credono ad un sacco di sciocchezze.»
Il volto dell’assistente sociale si contrasse e tornò a rivolgere la sua attenzione alla direttrice. Questa volta la signora Smith poté chiaramente distinguere la rabbia che riempiva gli occhi della donna. Tra quello, i capelli rossi e la cicatrice sul volto, la direttrice provò una paura talmente viscerale che le gambe le cominciarono involontariamente a tremare.
«Sa, io la conoscevo questa ragazza…» L’assistente sociale indicò con un cenno la foto «Frequentavamo la stessa scuola… e una cosa che ricordo chiaramente è che ha sempre odiato i bulli e le ingiustizie.» Iniziò ad avvicinarsi e per quanto la direttrice volesse allontanarsi le sue gambe non collaborarono ed iniziarono anzi a tremare ancora di più. Non aiutava il fatto che la casa aveva ricominciato ad oscillare. Diverse lampadine scoppiarono lasciando volare scintille per tutta la stanza. «A scuola proteggeva i più piccoli e i più deboli, ha fatto tutto il possibile per aiutare coloro che ne avevano bisogno, ha dato la sua vita per salvare la vostra e quella dei bambini che si trovavano qui dentro. Lei crede che non sia più qui a proteggerli? Beh… si sbaglia.» Le labbra della giovane donna si sollevarono leggermente. «Eileen Moore sta davvero vegliando sui suoi bambini, li sta proteggendo.»
La signora Smith riuscì a trovare una piccola scintilla di coraggio, insieme alla spavalderia che l’aveva sempre contraddistinta. «Ah sì? Spiegami come fa a proteggerli se è crepata.»
Gli occhi della donna lampeggiarono di nuovo e si avvicinò fino a che i loro volti si trovarono a soli pochi centimetri di distanza, la signora Smith cercò di trattenere un singhiozzo nel ritrovarsi così vicina alla cicatrice dell’altra.
«Ha mandato me.» La voce era un sussurro ma risuonò chiaramente nell’atrio nonostante la pioggia e i tuoni che continuavano a riempire l’aria. «E anche io non tollero le ingiustizie o i prepotenti. Quindi lei darà subito le dimissioni ed entro domani mattina lascerà questo edificio e non vi farà più ritorno in tutta la sua lurida vita. Se non lo farà o se oserà avvicinarsi ad uno qualsiasi di questi bambini se ne pentirà amaramente. Mi ha compreso?»
La signora Smith era talmente sgomenta che non disse una parola.
«Ho detto: mi ha compreso?»
La direttrice annuì con tutta la sua forza.
«Allora se ne vada.»
Non se lo fece ripetere due volte. Si voltò di scatto e volò via dalla stanza, trattenendo a fatica i singulti di terrore, mentre l’assistente sociale guardava soddisfatta gli effetti delle sue parole. Quando rimase sola, la giovane donna prese un rametto dalla tasca del mantello e appena lo agitò, le lampadine che erano scoppiate si aggiustarono di colpo.
Si voltò di nuovo verso la foto di Eileen e proprio in quel momento uno dei disegni si staccò e volteggiò leggiadro verso terra.
Lydia Merlin si chinò a raccoglierlo e lo riposizionò al suo posto con cura. Le sue dita si soffermarono lievemente sulla raffigurazione della giovane donna e sulle ali che un bambino le aveva affidato.
Sì. Anche Lydia Merlin era d’accordo con i bambini dell’orfanatrofio Saint Michel.
Eileen Moore era un angelo.